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PRODI EURO Altro

Il governo Prodi e l’ingresso italiano nella moneta unica: tra difficoltà interne e sfida europea (1995-1998)

Italia entra in EURO Malgrado L’opposizione Franco Tedesca.

Tenuto conto che in questo contesto che giunge il monito della Commissione del 23 aprile 1997: l’Italia e la Grecia sono gli unici Paesi non in linea. 

Quando nel dicembre del 1997 furono decisi‎ i Paesi ammessi alla terza fase dell’Unione Economia e Monetaria, tra cui l’Italia, i tassi di interesse sui debiti pubblici iniziarono a convergere rapidamente.

In pochi mesi il famigerato spread scese di circa 400 punti. In pratica da quel momento abbiamo risparmiato 4 punti percentuali di interessi l’anno sul debito pubblico. Allora il nostro debito era circa il 120% del PIL, quindi il risparmio era di circa il 4,8% del PIL all’anno.

Bastava mantenere le tasse e le spese com’erano, senza fare nulla, senza rigore o austerity, e il debito sarebbe sceso di circa 5 punti percentuali l’anno. E’ ciò che ha fatto il Belgio: entrato nell’euro con un debito del 120% del PIL nel 1997, allo vigilia della crisi nel 2007 l’aveva ridotto all’87%.

Purtroppo per l’Italia la manna dei tassi bassi fu usata dal centro-destra per aumentare la spesa corrente azzerando l’avanzo primario. Questa prassi si è manifestata costantemente durante tutti i governi Berlusconi dal 1994 al 2011

COME STAVA italia prima dell’euro?? FALLITA?!!!

La notte di venerdì 10 Luglio 1992 il Governo Amato sconvolse gli italiani annunciando un prelievo forzoso dello 0,6% da tutti i conti correnti: la misura, smentita solo fino a pochi giorni prima, si rese necessaria per salvare i conti pubblici in un contesto di debito pubblico fuori controllo e Lira sotto pressione

QUESTI SONO i FATTI LE BUFALE LE LASCIAMO AGLI IDIOTI

Purtroppo con il Govereno Berluscono sono Saltati i controili sui prezzi un ERRORE STORICO. . E ci sarebbe da ridere perché fu proprio il suo governo che non volle gestire questa fase come invece avvenne in tutti gli altri paesi»

«Il 1 gennaio del 2002, quando la moneta unica fu introdotta, Berlusconi governava da sette mesi e per i 3 anni successivi non ha fatto assolutamente nulla: non istituì le commissioni provinciali di controllo e non impose il sistema del doppio prezzo esposto, in lire ed euro, per le merci in vendita. Questa pessima gestione ha caratterizzato solo il nostro Paese e questo è accaduto unicamente per non scontentare il suo elettorato».

«Non è vero che gli altri paesi abbiano avuto degli sbalzi di prezzo come i nostri! Non è vero che siano rimasti inattivi come rimasta l’Italia. Noi avevamo le commissioni: una commissione centrale che Ciampi ed io avevamo costituito con nostro governo, le commissioni provinciali non sono mai state convocate. Non si è fatto nulla, nemmeno per mantenere il doppio prezzo

Solo per memoria storica si Riportano le Critiche insensate degli addetti ai lavori in Primis Berlusconi e Tremonti

“Quella di Berlusconi e Salvini dell’euro causa di tutti i mali del sistema economico italiano per l’errore presunto di Prodi di averlo introdotto a valori ‘improvvidamente accettati’ è una bufala formato XL, ottima da indossare per la stagione elettorale 2017-2018 ma che, malgrado il formato, non riesce a nascondere le precise responsabilità del Governo di centrodestra che, probabilmente per non scontentare il suo elettorato, non seppe o non volle vigilare correttamente al momento del passaggio lira/euro.”

“Un po’ di fact-cheking: la bufala extra-large, infatti prende a riferimento non il passaggio all’euro negoziato dall’allora governo Prodi nel 1996-98 fino all’adozione sui mercati nel 1999 sulla base dei tassi effettivi di cambio al 31 dicembre 1998, ma la circolazione monetaria della moneta unica, iniziata nel gennaio del 2002 in pieno governo Berlusconi-Tremonti, in carica in quel momento da circa 7 mesi e per i 3 anni successivi.”

“La fissazione del cambio lira-euro a circa 2.000 vecchie lire fu speculare a quella della Germania di 2 vecchi marchi per 1 euro. Fino alla circolazione monetaria non vi fu nessuna anomalia.

Queste iniziarono invece con l’adozione fisica della nuova moneta che, nell’assoluta mancanza di controlli e vigilanza da parte del Governo Berlusconi e del Tesoro, fu lasciata allineare al cambio effettivo di 1-a-1 con le vecchie 1.000 lire determinando un effetto a valanga di svalutazione reale degli asset, dal carrello della spesa fino al mercato immobiliare.

In Italia, tanto per citare qualche misura concreta, non furono istituite le commissioni provinciali di controllo e non si impose il sistema del doppio prezzo esposto, in lire ed euro, per le merci in vendita”.

il percorso compiuto dall’Italia verso la moneta unica tra il 1995 e il 1998, focalizzando l’attenzione sull’attività del principale protagonista di questa fase politica, Romano Prodi, dalla campagna condotta alla guida dell’Ulivo in vista delle elezioni politiche del 1996 sino alla decisione del Consiglio europeo del maggio 1998, che sancì l’ingresso dell’Italia nell’Unione monetaria europea (UEM)[1].

Il riconoscimento del rispetto dei criteri di convergenza economica (solidità della finanza pubblica, stabilità del tasso di cambio e dei prezzi, bassi tassi d’interesse a lungo termine) e legale (indipendenza della Banca d’Italia) fissati dai trattati, che permise l’ingresso dell’Italia nel gruppo di testa dell’UEM, rappresentò l’esito di un’azione politica articolata sul duplice binario – interno e internazionale – per mantenere il nostro Paese ancorato al progetto europeo che aveva contribuito a fondare negli anni Cinquanta.

Si trattò di un esito tutt’altro che scontato perché si confrontò non solo con difficoltà interne ma anche, sulla scena comunitaria, con un rigido scetticismo tedesco (dettato dalla preoccupazione di rendere instabile la nuova moneta ammettendo l’Italia tra i paesi fondatori) e, almeno inizialmente, con l’accordo francese a escludere l’Italia pur di arrivare all’accordo con Berlino sulla moneta unica.

  1. La traversata del deserto: l’asse franco-tedesco e l’isolamento italiano in Europa (1994-95)

Tra il 1994 e il 1995 è sostanzialmente l’asse franco-tedesco a gestire l’applicazione del trattato di Maastricht e l’avvio della nuova moneta, fissato per il 1999. Alla solida leadership di Helmut Kohl in Germania si associa, a partire dalla primavera del 1995, il gollista Jacques Chirac, succeduto all’Eliseo al lungo regno del socialista François Mitterrand. In questo scenario l’Italia appare isolata su più fronti, nel mezzo di una delicata fase di transizione seguita alle inchieste di Tangentopoli e all’ingloriosa fine della cosiddetta “Prima Repubblica”, mentre emergono nuove forze politiche e parole d’ordine inedite quali “bipolarismo”, “governabilità”, “risanamento”, “riforme”, “privatizzazioni”.

Sul piano economico l’espulsione nel 1992 della lira dal Sistema monetario europeo (SME), che legava le valute partecipanti a una griglia di cambio predeterminata, e le oscillazioni della nostra moneta, accreditano progressivamente l’affermazione di un’Unione monetaria ristretta, senza la partecipazione italiana.

Ad avvalorare questa ipotesi è l’isolamento diplomatico del nostro Paese, che vede chiudersi prematuramente l’esperienza del primo governo Berlusconi (maggio 1994-gennaio 1995), dopo appena otto mesi nei quali l’Italia non ha brillato per attivismo a Bruxelles, né si è fatta apprezzare particolarmente dai partner europei. Nel rapporto economico annuale pubblicato il 12 dicembre 1994 dalla Commissione europea il giudizio sull’Italia è piuttosto severo: si critica in particolare l’abbandono della linea di risanamento delle finanze pubbliche adottata nei due anni precedenti.

A partire dal gennaio 1995 gli succede un governo tecnico guidato da Lamberto Dini, che mantiene l’interim del Tesoro e nomina al Bilancio l’economista Rainer Masera, già collaboratore di Ciampi nel negoziato per Maastricht[2].

L’isolamento italiano in questo contesto è peraltro testimoniato dalla più autorevole stampa europea:

Ripristinare la fiducia: non esistono altre parole d’ordine per il futuro governo nato dalla crisi italiana. Questa fiducia persa dal governo Berlusconi a partire dall’estate scorsa, e che è così duramente mancata alla lira, che ha battuto ogni record storico negativo rispetto al marco tedesco […]. La personalità del probabile capo del governo, Lamberto Dini, conterà molto per ripristinare la fiducia […]. Il tentativo di Lamberto Dini di formare un governo si inserisce dunque in un contesto particolarmente delicato. L’Italia può essere paragonata al Messico, come hanno fatto alcuni economisti? Esiste al meno un punto in cui essa si trova in una posizione più scomoda rispetto al grande paese latino-americano: mentre Bill Clinton si è impegnato in prima persona per sostenere il Messico, i grandi partner europei dell’Italia hanno mantenuto un silenzio assordante durante tutta la durata della crisi. Né Kohl, né Mitterrand, né Major hanno proclamato pubblicamente la propria fiducia nell’Italia[3].

Sulle due sponde del Reno il contesto conosce peraltro una progressiva evoluzione.

In Francia nel maggio 1995 vince le presidenziali Jacques Chirac, rappresentante del Rassemblement pour la République (Rpr), dopo aver sconfitto al ballottaggio il socialista Lionel Jospin e al primo turno l’ex primo ministro e compagno di partito Édouard Balladur, sull’onda dello slogan “ridurre la frattura sociale”. Gli ambienti europei si preoccupano per i suoi trascorsi gollisti e per la presenza nel suo entourage di personalità – a partire da Philippe Séguin[4] – che avevano guidato la campagna contro Maastricht nel 1992[5]. Il nuovo inquilino dell’Eliseo si dimostra invece determinato a riaffermare il ruolo di Parigi in campo europeo, garantendo il rispetto degli impegni da parte della Francia e sollecitando il partner tedesco – sin dal primo incontro a Strasburgo il 18 maggio 1995 – a raggiungere l’obiettivo della moneta unica nei tempi previsti[6]. Come segnale forte avvia una progressiva presa di distanza dal fronte del “no” a Maastricht – che culminerà con la rottura con Séguin nel 1999 – e nomina come primo ministro Alain Juppé, ex responsabile degli Esteri del governo Balladur (1993-95), con un programma di rigore, riforme e sacrifici di bilancio volti a rientrare nei criteri di Maastricht. Il contesto, oltretutto, pare favorevole per la realizzazione del programma di governo, in considerazione dell’egemonia del partito presidenziale sulla scena politica: il centro-destra francese controlla la Presidenza della Repubblica, l’Assemblée nationale, la quasi totalità delle regioni (20 regioni metropolitane su 22), dei dipartimenti e delle grandi città (Parigi, Marsiglia, Lione, Bordeaux).

In Germania, nel medesimo frangente, emergono divergenze sia su questioni di natura finanziaria che politica. In particolare, se il cancelliere Kohl appare disponibile ad accettare sacrifici, in nome della solida tradizione europeista della propria famiglia politica (sin dai tempi di Adenauer e Hallstein) e dell’idea forte che la moneta unica costituisca un primo passo verso una maggiore integrazione politica, il panorama delle forze tedesche appare decisamente articolato. A sostenere questa visione sono i vertici della Cdu-Csu e i liberali dell’Fdp guidata da Klaus Kinkel, che sostengono il quinto governo Kohl (1994-98), dando vita alla coalizione “giallo-nera”. Ampi settori dell’opinione pubblica tedesca – a partire dall’Spd, ma anche alcune correnti della Cdu e ambienti della finanza – si oppongono tuttavia all’idea di abbandonare il marco, simbolo della stabilità monetaria e del benessere ritrovati dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale. Il loro riferimento è la Bundesbank, difesa compattamente da gran parte della stampa e dei media tedeschi, generalmente poco indulgenti nei confronti dell’Italia[7]. A partire dal 1993 il sincero europeista Hans Tietmeyer è succeduto alla guida della Banca centrale tedesca all’eurotiepido Helmut Schlesinger[8]. Nondimeno il nuovo presidente della Bundesbank si definisce un “Prussiano di Westfalia”, ha come obiettivo prioritario la stabilità dei conti e non lesina manifestazioni di una certa arroganza verso i popoli dell’Europa mediterranea, come gli italiani che ha definito in più occasioni come “più dotati per giocare a calcio che per ridurre il loro deficit di bilancio”[9].

A partire dalla primavera 1995 il compromesso franco-tedesco per il rispetto degli impegni di Maastricht pare affermarsi attorno all’idea di un’Europa a due velocità in cui l’ancoraggio alla moneta unica avrebbe definito anche la partecipazione all’asse di testa che avrebbe guidato l’Europa politica[10]. L’obiettivo è il rilancio del volontarismo franco-tedesco, reso necessario dall’indebolimento dell’esecutivo comunitario in concomitanza con l’uscita di scena dell’autorevole guida di Jacques Delors. Emblematico a questo riguardo il documento strategico della Cdu-Csu presentato dal capogruppo parlamentare Wofgang Schäuble e dal portavoce per la politica estera Karl Lamers al Bundestag il 1° settembre 1994 e intitolato “Riflessioni sulla politica europea”, in cui erano stati definiti i cinque paesi del cosiddetto “nucleo duro” (Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo) e si era precisato come l’Italia e gli altri paesi membri dell’UE potessero essere integrati soltanto quando “avranno risolto alcuni dei loro attuali problemi e nella misura in cui essi stessi intendono assumere gli impegni citati”[11]. “Italia fuori dall’Europa di Kohl” aveva commentato “la Repubblica” l’indomani[12].

In occasione del Consiglio europeo di Cannes del giugno 1995, a chiusura del semestre di presidenza francese dell’Ue, Kohl e Chirac ribadiscono la determinazione a rispettare la tabella di marcia affinché il passaggio alla moneta unica abbia luogo “al più tardi il 1° gennaio 1999”. Nel frattempo dal marzo 1995 è stato attuato il trattato di Schengen, che introduce una piena libertà di circolazione tra nove paesi europei (Italia, Belgio, Germania, Francia, Lussemburgo, Olanda, Spagna, Portogallo e Grecia) ma che l’Italia (oltre alla Grecia) non è inizialmente in grado di attuare per carenze burocratiche, alimentando le preoccupazioni per la marginalità europea del nostro Paese[13].

L’Italia si trova contemporaneamente in una posizione scomoda e inedita: per la prima volta dagli anni Cinquanta il nostro paese appare isolato e ai margini del progetto europeo e vede messo in discussione uno dei due storici ancoraggi della propria collocazione internazionale (assieme all’appartenenza al Patto atlantico).

In questo contesto il governo Dini, nonostante alcune frizioni in Europa, soprattutto con la Francia di Chirac polemica per la svalutazione della lira[14], punta a una stabilizzazione dei conti consapevole della sua natura di esecutivo “a tempo” che deve traghettare il paese verso elezioni politiche, la cui data viene fissata per il 21 aprile 1996, durante il semestre di presidenza italiano dell’Ue.

Nel corso della campagna elettorale l’Ulivo fa dell’Europa il tema centrale della propria proposta politica: l’Ue rappresenta, agli occhi della coalizione di centro-sinistra e del suo leader Prodi un interesse nazionale primario. A sostenere questa determinazione europea è il laboratorio intellettuale bolognese del Mulino: la casa editrice pubblica libri dai forti connotati europeisti[15], la rivista in questo periodo esce con un supplemento, dal titolo “il Mulino Europa”, appositamente dedicato all’Europa[16] e organizza il 15 marzo 1996 un convegno di alto profilo dal titolo L’Italia in Europa, sul ruolo italiano all’interno della Ue, in cui autorevoli figure vicine al Professore – a partire dall’allora vicedirettore della Banca d’Italia, Tommaso Padoa-Schioppa – esortano l’Ulivo a investire sulla dimensione europea[17].

Prodi può d’altronde contare su un sostegno ampiamente maggioritario nell’opinione pubblica italiana che, come testimoniano i dati di Eurobarometro, è la più europeista sul Vecchio continente: l’85% degli italiani dichiara di sostenere il processo d’integrazione europeo (i contrari sono l’8%, mentre la media europea è al 69%), mentre il 75% è favorevole all’appartenenza del proprio paese all’Ue (i contrari sono il 4% a fronte di una media europea al 48%)[18]. L’Europa appare ancora in questo frangente come un veicolo di legittimazione politica e di consenso politico e elettorale. Su questo fronte oltretutto risulta pressoché incolmabile la distanza tra la credibilità della coalizione di centrosinistra e la trasparenza europea di cui ha dato prova il governo Berlusconi negli otto mesi alla guida del paese. Il segretario del Partito democratico della sinistra, Massimo D’Alema, a elezioni vinte, il 30 maggio 1996, avrebbe spiegato in Parlamento come “L’Ulivo ha vinto anche perché è apparsa come la coalizione più europea, più capace di garantire l’integrazione europea dell’Italia”[19].

All’indomani della vittoria elettorale dell’Ulivo, il governo Prodi, per garantire l’ingresso dell’Italia nel gruppo di testa che avrebbe dato vita alla moneta unica, articola una duplice strategia – sul binario interno e internazionale – per venire a capo di una sfida che si annuncia tanto politica (occorre convincere i partner europei e ottenere una maggioranza qualificata, 62 voti su 87, del Consiglio europeo) quanto tecnica, legata al rispetto dei parametri di Maastricht[20].

Su questo terreno la strada pare in salita su tutti i criteri principali: il deficit di bilancio deve essere inferiore al 3% e l’Italia nella primavera del 1996 è al 6,7%, il debito pubblico non deve oltrepassare il 60% del Pil e l’Italia è al 124%; l’inflazione deve essere controllata e invece il tasso è di tre volte superiore a quello dei paesi più virtuosi dell’Ue[21]. Il nostro Paese deve infine essere riammesso nello SME, da cui è escluso dal 1992.

Sul piano interno il governo Prodi è determinato a utilizzare l’europeismo dell’opinione pubblica come leva di condizionamento politico di una coalizione composita ed eterogenea, all’interno della quale Rifondazione comunista, che ha conquistato un ragguardevole 8,6% alle elezioni, non nasconde il proprio scetticismo nei confronti del Trattato e avvia sin dalla primavera del 1996 un atteggiamento di “sostegno critico” al governo. Nonostante queste articolazioni di vedute Prodi riesce a fare dell’adesione all’Unione monetaria il riferimento politico e il cemento identitario di una coalizione altrimenti divisa su questioni di prim’ordine sul terreno istituzionale, sociale e internazionale[22].

Sul piano europeo oltretutto il governo italiano può contare su due frecce al proprio arco. Da un lato la concomitanza con il semestre di presidenza europeo dell’Italia e l’organizzazione del Consiglio europeo di Firenze del 21 e 22 giugno, dall’altro la formazione della squadra di governo realizzata da Prodi è fortemente caratterizzata in senso europeista, con l’inserimento di personalità sensibili al processo di integrazione, e in particolare alla sua declinazione economica, come Dini agli Esteri, a garanzia di continuità con l’esecutivo precedente, Carlo Azeglio Ciampi, che gode di grande stima internazionale (in particolare in ambienti tedeschi) come garante in qualità di “superministro” dell’Economia[23] e, infine, Giorgio Napolitano all’Interno [24].  Si tratta di una risorsa importante, in termini di “capitale di partenza”[25] che conferisce ulteriore credibilità al governo sia di fronte ai partner europei che agli occhi del mondo dell’industria e della finanza, tradizionalmente scettico nei confronti dei partiti di sinistra.

La strategia europea del governo Prodi in questo frangente si articola in due fasi: sino al Consiglio europeo di Firenze (21-22 giugno 1996) tenta di sondare la possibilità di un rinvio o quantomeno di un ammorbidimento dei criteri di Maastricht, mentre dall’estate dello stesso anno – verificata l’impraticabilità di questa soluzione – il governo si risolve a concepire la Finanziaria da 62.500 miliardi per garantire l’ancoraggio alla moneta unica nei tempi previsti.

Il Documento di programmazione economica adottato in leggero ritardo a seguito di un contrasto nella maggioranza e nelle forze sociali che la sostengono viene presentato alla vigilia del Consiglio europeo di Firenze e pone l’obiettivo di riduzione del deficit al 4.5% nel 1997, rinviando l’obiettivo del 3% al 1998 anziché al 1997. Il tentativo è quello di non caratterizzare eccessivamente la linea d’azione dell’esecutivo nel senso del rigore, suscitando tuttavia le critiche del commissario europeo per il Mercato interno, Mario Monti, per uno sforzo di riordino dei conti ritenuto insufficiente[26].

Al suo primo Consiglio europeo, Prodi percepisce una fiducia personale nei suoi confronti, ma nessuna praticabilità per l’ipotesi del rinvio o dell’ammorbidimento. Il premier rileva un notevole isolamento. Kohl e soprattutto Chirac, che ricorda con poco favore le svalutazioni italiane tra il 1992 e il 1995, che “hanno fatto molto male a diversi paesi europei, e in particolare alla Francia”[27], sono decisi ad andare avanti nei tempi e nei modi concordati, senza variazioni sulla tabella di marcia, a costo di procedere senza l’Italia. Franco Venturini sul “Corriere della Sera” commenta che il Consiglio di Firenze “dice soltanto che il semestre italiano comincia ora, e che sarà un semestre di fuoco”[28].

È in questo frangente che il governo decide di investire a fondo sull’Europa progettando una manovra finanziaria di sacrifici per entrare da subito nella moneta unica. A riguardo occorre quindi rivedere la tesi della cosiddetta “sponda spagnola” che Prodi avrebbe richiesto al primo ministro spagnolo Aznar a settembre 1996. In un’intervista rilasciata al “Financial Times” Aznar ha infatti affermato di avere ricevuto da Prodi, in occasione del vertice italo-spagnolo di Valencia (16-17 settembre 1996), l’invito a creare una sorta di asse mediterraneo volto a chiedere un ammorbidimento degli sforzi finanziari richiesti dalle clausole di Maastricht e un rinvio delle scadenze fissate. Secondo questa tesi, ripresa da importanti settori della stampa italiana, tra cui il “Corriere della Sera”[29], sarebbe stato il diniego ricevuto da Madrid a spingere il governo Prodi alla manovra di rigore definita nell’autunno 1996.

In realtà, anche alla luce della documentazione presente nell’archivio di Romano Prodi, pare più accreditata la tesi sostenuta dallo stesso leader dell’Ulivo, che ha affermato come già dieci giorni prima dell’incontro di Valencia con Aznar “scrissi due lettere identiche, al cancelliere tedesco Helmut Kohl e al presidente francese Jaques Chirac” in cui “comunicavo il fermo impegno del mio governo ad adottare tutte le misure necessarie per portare l’Italia nell’euro sin dal suo avvio”[30]. Secondo questa versione “il raddoppio a 62.500 miliardi di lire della manovra economica del ’97 fu la traduzione dell’impegno dichiarato nelle lettere”[31].

Il testo delle due lettere inviate da Prodi a Kohl e Chirac, all’indomani dell’incontro avuto dal cancelliere tedesco con il presidente francese a Bonn (1 settembre 1996), nel quale avevano ribadito l’impegno comune per l’avvicinamento alla moneta unica, sembra confermare questa tesi:

Mi sembra di poter affermare che l’approccio da voi previsto sia per parte nostra non solo pienamente condivisibile, ma che esso rappresenti anche lo scenario più indicato per raggiungere il fondamentale obiettivo dell’UEM […]. Del raggiungimento di questo obiettivo l’Italia intende fare una scelta strategica fondamentale a cui intendiamo concorrere con la più grande determinazione. Già a partire dal 1992, i Governi italiani che si sono succeduti hanno operato in questo senso, con una continuità che intendo assolutamente rispettare e rafforzare, traducendola prossimamente nella legge finanziaria per il 1997 […]. È interesse dell’Europa e di tutti i Paesi che credono nel processo di integrazione che non vi siano fasi di incertezza non solo sul progetto di Unione Monetaria e sui suoi tempi di realizzazione ma anche sulla partecipazione degli Stati membri, che stanno compiendo gli sforzi necessari per adeguarsi ai parametri di Maastricht, con particolare riguardo ai Paesi fondatori e alla Spagna. […] Volevo farle presente queste mie valutazioni, per sottolineare ancora una volta che l’Italia farà ogni sforzo per essere puntuale all’appuntamento dell’UEM già dal primo gennaio 1999[32].

È dunque in questo contesto che viene concepita la manovra finanziaria da 62.500 miliardi di lire, in una riunione ristretta a Palazzo Chigi a cui partecipano Prodi, il vice-premier Veltroni e i ministri economici Ciampi, Treu e Visco. Il presidente del Consiglio punta a garantire la credibilità europea dell’impegno italiano con il varo di una “euro-tassa” ad hoc e una serie di vertici bilaterali (il 3 e 4 ottobre 1996 a Napoli con il presidente francese Chirac e una successiva visita a Bonn, per un incontro con Kohl) che creano in Europa un clima di progressiva fiducia attorno a Prodi e Ciampi, coronata dal rientro nello SME dopo quattro anni (novembre 1996) con la fissazione della parità con il marco a 990 lire.

L’impegno italiano per il rispetto dei criteri di Maastricht trova eco immediata in Europa e un generale apprezzamento per il rigore di una misura che non intacca le basi dello stato sociale[33]. I dubbi avanzati da Chirac il 1° ottobre 1996 circa l’effettiva capacità dell’Italia – a cui rinfaccia la pratica della svalutazione competitiva della lira degli anni precedenti – di entrare nel gruppo di testa dell’Unione monetaria suscitano una piccola crisi diplomatica, presto chiusa dalla rettifica del presidente francese, che in occasione del vertice franco-italiano di Napoli del 3 e 4 ottobre dichiara di sostenere senza indugi gli sforzi del governo italiano[34].

Il principale quotidiano francese, attraverso il suo direttore, cita in questa occasione l’impegno italiano e la pedagogia europeista messa in campo dal governo Prodi come un esempio che dovrebbe illuminare anche l’azione dell’esecutivo francese: “Mentre in Italia, per rifarci ad un esempio vicino a noi, la pedagogia governativa consente di giungere fino all’istituzione di una ‘tassa per l’Europa’, in Francia l’esecutivo non  gira più”[35].

Restano tuttavia sul tavolo alcuni nodi irrisolti. In primo luogo lo scetticismo che permane in importanti ambienti europei, che continuano a vedere nell’Italia un paese poco affidabile: il timore è che l’impegno italiano per raggiungere la moneta unica costituisca in realtà uno sforzo momentaneo finalizzato al raggiungimento dell’obiettivo, che non sarebbe però mantenuto nel tempo.

Il governatore della Bundesbank, Tietmayer, nonostante gli ottimi rapporti con Ciampi, mette in guardia i paesi europei dallo scarso rigore italiano e dal rischio che l’impegno messo in campo dal governo Prodi resti una misura congiunturale, dichiarando che “l’Unione economica e monetaria deve essere costruita su una stabilità fiscale e monetaria che sia profondamente ancorata nelle società”[36].

Un altro colpo agli sforzi del governo italiano arriva ai primi di novembre 1996 dalla Commissione europea che, nonostante la manovra, avanza una previsione di deficit al 3,3% per il 1997, suscitando una risposta irritata, quanto puntuale, di Prodi a Santer[37].

Permangono poi problemi interni alla maggioranza di centrosinistra. In particolare emerge l’irritazione del leader del PDS, Massimo D’Alema che – indispettito per il tentativo di Prodi di trasformare in movimento politico organizzato i comitati che portano il suo nome – in occasione dell’Assemblea dei deputati del PDS, il 1° ottobre 1996, accusa il presidente del Consiglio di avere mostrato eccessiva accondiscendenza verso Rifondazione comunista, capovolgendo l’impostazione originaria della Finanziaria.

Si nota infine una presa di distanza da parte di alcuni settori della stampa. Autorevoli editorialisti non nascondono i loro dubbi sulle effettive possibilità del governo Prodi di centrare l’obiettivo europeo. “È in grado di guidare il paese?”, si chiedono, domenica 29 settembre, Angelo Panebianco e Giovanni Sabbatucci, nei rispettivi editoriali sul “Corriere della Sera” e su “Il Messaggero”. E, riprendendo le voci secondo le quali D’Alema, una volta approvata la Finanziaria, si appresterebbe a rovesciare Prodi per sostituirsi a lui alla guida del governo, Panebianco conclude: “Se ciò accadesse sarebbe un bene”[38].

In particolare molti organi di stampa ritengono che quelli imposti dalla manovra siano sacrifici inutili[39], difficilmente destinati al successo e che il governo Prodi goda comunque di scarse credenziali europee:

Altra nota dolente, la politica estera ‒ scrivevano Padellaro e Tito sul settimanale “L’Espresso” ‒. Nell’arco di poche ore l’Italia ha scoperto di essere malvista a Parigi e a Bonn, poco considerata a Madrid, ed equiparata come peso politico alla Grecia […]. Come mai Prodi si è fatto cogliere di sorpresa dalle calibrate insolenze di Aznar? Riusciremo a entrare nell’Europa monetaria con il gruppo di testa? Secondo il “Financial Times” no […]. Morire per Maastricht forse è un rischio che si può correre. Ma morire per Prodi?[40].

La strada verso la moneta unica, nell’autunno del 1996, pare ancora lunga e tortuosa.

  1. Romano Prodi e la “conquista” dell’euro in quattro tempi (1996-1998)

Parlando il 23 dicembre 1996 Romano Prodi fa un bilancio dei primi sei mesi di governo sul fronte dell’accelerazione per l’ingresso nel gruppo di testa dei Paesi della moneta unica[41]. Da un lato egli cerca di minimizzare il legame diretto tra risanamento economico ed ingresso nella moneta unica. Il traguardo dell’euro avrebbe solo spinto ad un’accelerazione di un processo di discontinuità rispetto ad inflazione e svalutazione che doveva comunque essere implementato[42]. Dall’altro si sofferma poi a sottolineare il lavoro pedagogico e sulla mentalità: riuscire a cambiare approccio mentale, sia nell’italiano medio, sia nella classe imprenditoriale potrebbe garantire, sempre secondo il Presidente del Consiglio, una stabilità duratura.

Rispetto alla possibilità che la cura “lacrime e sangue” faccia perdere consenso al processo di integrazione europea, Prodi assicura su quanto saldo sia nel contesto italiano tale sentimento. “Gli italiani sanno che l’Europa li ha salvati molte volte dai loro vecchi demoni”[43].

La stoccata finale è diretta ai partners europei, in particolare alla Germania di Kohl: “Non sono io ad aver scelto l’ipotesi di una sola ondata di Paesi nella moneta unica. Italia aveva pensato alla possibilità di soddisfare i criteri entro il 1998; dopo l’incontro tra Chirac e Kohl del 2 settembre 1996 sono stato costretto ad anticipare. Esiste solo un treno credibile per l’euro e questo partirà entro il 1997”. È interessante questa sorta di tentativo di “deresponsabilizzarsi” o comunque di sottolineare la rilevanza del cosiddetto “vincolo esterno”, in questo caso sollecitato dalla coppia Francia-Germania. Se l’approccio può essere utile a fini di politica interna, bisogna altresì sottolineare che l’ipotesi di fare dell’ingresso nel gruppo di testa dell’area euro il cardine dell’azione di governo è centrale per Prodi dall’aprile del 1996, cioè sin dalla fase di formazione della compagine di governo[44].

Tempo 1 – L’offensiva di inizio 1997

Quello che si delinea come l’anno decisivo sembra iniziare positivamente per il governo Prodi. Il 18 gennaio Prodi incontra Aznar a Venezia per un bilaterale che ha l’obiettivo di riportare il sereno tra Roma e Madrid dopo le frizioni e una sorta di competizione proprio relativamente al traguardo europeo[45]. E ai primi di febbraio è lo stesso Prodi a rassicurare che l’Italia sarà nel primo gruppo di Paesi che vareranno la moneta unica[46]. Peraltro in vista di un delicato bilaterale Italia-Germania previsto a Bonn per il 7 febbraio, dalla Germania giungono smentite a proposito di un supposto scetticismo tedesco proprio riguardo all’ingresso italiano. Se questa è la dimensione pubblica, la Presidenza del Consiglio sta operando anche a “fari spenti”. Come suggerito dal consigliere diplomatico R. Nigido, il 22 gennaio 1997 Prodi scrive al presidente della Commissione Santer e a tutti i capi di Stato e di governo dell’UE una lunga e dettagliata missiva nella quale spiega con dovizia di particolari la legge finanziaria approvata sul finire del 1996. Alla lettera che testimonia tutti gli aggiustamenti è poi allegato un dossier ancora più ampio e molto tecnico che entra ancora di più nei dettagli economici[47].

Ma che la dimensione pubblica e il sostanziale scetticismo tedesco tengano banco è testimoniato anche dal dibattito che si svolge nel corso del Consiglio dei ministri del 6 febbraio 1997. Sono in particolare Ciampi e Napolitano ad intervenire sul punto. Il primo ricordando di non cadere nelle provocazioni (anche tedesche) e marciare spediti per entrare nel primo gruppo e non commettere nuovamente l’errore commesso con Schengen. Napolitano appare molto più irritato in particolare in relazione all’attitudine di Kohl, che il ministro dell’Interno considera parte di una “elaborazione tecnico-politica contraria all’Italia”[48] (come dare torto a Napolitano, viste le dichiarazioni di Kohl a 24 ore dal bilaterale, a “la Repubblica”: “Ecco quanto dirò all’amico Prodi: rispettare i criteri di Maastricht è come fare i compiti a scuola. Quando ero scolaro, e non li svolgevo bene, per punizione poi non potevo uscire. Ed era solo colpa mia”)[49]. Bisogna notare che si tratta di un mix strano di avanzamenti e arretramenti, basti pensare che due giorni dopo l’ambasciatore tedesco a Roma Dieter Kastrup smentisce categoricamente le illazioni avanzate dal “Financial Times”, a proposito di un piano redatto dal governo federale su quelli che saranno i tempi dell’adesione italiana[50].

In realtà il bilaterale va piuttosto bene (Kohl afferma che i conti si faranno ad inizio 1998)[51] anche perché è preceduto dal sostegno francese (Chirac il 6 febbraio dichiara che Parigi vuole l’Italia nel primo gruppo)[52]. Prodi conferma che l’offensiva di inizio anno è concreta nei fatti e nonostante le turbolenze interne (in parte dovute alla questione albanese, con il via libera alla missione Alba solo ponendo la fiducia e grazie ai voti decisivi del Polo il 9 aprile, voto seguito da una verifica e da un ulteriore passaggio parlamentare con doppia fiducia al governo, con il sì anche di Rifondazione comunista)[53], il 27 marzo il governo vara la manovra aggiuntiva bis per 15.500 miliardi (con il via libera del Parlamento, ponendo la fiducia, che giunge ad inizio maggio 1997).

Tempo 2 – I rimproveri della Commissione, il fronte comune e la possibile sponda francese

È in questo contesto che giunge il monito della Commissione del 23 aprile 1997: l’Italia e la Grecia sono gli unici Paesi non in linea. La previsione dell’ufficio statistico della Commissione europea entra nel dibattito politico italiano e sul banco degli imputati sono chiamati immediatamente il presidente del Consiglio e la sua maggioranza parlamentare, con il sostegno decisivo di Rifondazione Comunista. Sono in particolare il “Corriere della Sera” e “La Stampa” a sottolineare la dimensione politica del monito proveniente da Bruxelles. Venturini dalle colonne del quotidiano di Via Solferino parla delle previsioni della Commissione come di un invito esplicito al governo italiano affinché si “cambi rotta” e si passi “alle riforme strutturali”, per rendere così “stabili e sostenibili negli anni futuri i fatidici parametri di Maastricht”. E per cambiare rotta occorre guardare al carattere eterogeneo della maggioranza che sostiene l’esecutivo. “Senza Bertinotti non c’è maggioranza, con Bertinotti non ci sono riforme strutturali delle pensioni, della sanità, del pubblico impiego”[54]. Ancora più dure e ultimative le parole di Sergio Romano. A suo avviso quello proveniente da Bruxelles è un giudizio “politico-costituzionale […] sulla credibilità della classe dirigente italiana.  […] Cosa ha fatto Prodi per meritare questa credibilità? Ha corteggiato e vezzeggiato Bertinotti, ha coltivato il rapporto con Rifondazione comunista, vale a dire con una forza politica che non crede all’Europa né tanto meno alla necessità di mettere l’Italia in sintonia con la politica economica e sociale dei suoi partner”[55]. Le conclusioni dell’ex ambasciatore sono ancora più caustiche: “Comunque vada questa maggioranza, così come si è configurata, non può portarci in Europa. Molti lo sapevano da un pezzo. Oggi dovrebbero saperlo anche il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica”[56].

Di fronte alle offerte “politicamente interessate” di Silvio Berlusconi, il quale “tende la mano” a Prodi prospettando “larghe intese” da sostituirsi al sostegno alla maggioranza da parte di Bertinotti, risponde un Prodi particolarmente volitivo. Il Presidente del Consiglio oltre a minimizzare il monito proveniente da Bruxelles e a sottolinearne la dimensione solo “ragionieristica”, ricorda che il prossimo passaggio sarà quello della riforma dello stato sociale, con o senza il sostegno di Rifondazione, lasciando spazio all’ipotesi di un “esecutivo di minoranza”. In realtà al di là delle letture catastrofistiche, il richiamo giunto da Bruxelles potrebbe non essere politicamente indifferente proprio per il presidente del Consiglio. Come ricorda l’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, al documento dell’Ue definito “inopportuno e ingiustamente punitivo”, l’Italia può contrapporre la “serietà delle promesse di Ciampi e la volontà di fare di tutto per mettersi in linea con i parametri di Maastricht”. Per poi concludere che “solamente con l’Italia, l’euro sarà una moneta europea”[57]. Se letto in quest’ottica il richiamo sembra legato più ad un passato di “cattivi comportamenti”, che ad un presente virtuoso che dovrebbe essere confermato. Interessante a tal proposito il commento di Geminello Alvi su “la Repubblica”, il quale insiste sul fatto che il vero significato politico del richiamo giunto a Roma è quello di un suo isolamento a livello continentale. L’assenza di veri alleati renderebbe l’Italia un Paese facilmente attaccabile e sul quale scaricare rimproveri e commenti che Paesi meno isolati e più autorevoli non riceverebbero seppur con conti pubblici e situazioni politiche non dissimili da quella italiana[58].

Che la partita sia tutta politica e dunque politicamente vada giocata, a livello interno quanto a quello europeo, lo dimostra l’attitudine particolarmente offensiva proprio di Prodi nelle settimane successive. Egli, dopo aver incassato l’approvazione del Parlamento alla manovra aggiuntiva, decide di  “tirare dritto”. E con l’intervento alla stampa del 30 maggio 1997 per presentare le linee del DPEF per il 1998 chiama a raccolta il Paese affermando che “il ruolo del Parlamento e delle parti sociali sarà determinante”. Altri quattro elementi devono essere considerati nel suo intervento. Prima di tutto che partecipazione all’UEM e risanamento delle pubbliche finanze sono due finalità che coincidono e che si alimentano vicendevolmente. In secondo luogo che far parte del primo gruppo non è solo una questione di prestigio, bisogna esserci per poter influire nella scrittura delle regole di funzionamento, per bilanciare la presenza di “molto Nord”. In terzo luogo il risanamento non deve essere pensato come fine a se stesso o solo finalizzato all’ingresso nell’euro, senza di esso non sarà possibile avere sviluppo e crescita, elementi fondamentali per assorbire la disoccupazione (cronico assillo dell’Europa di fine XX secolo). E infine egli ribadisce che l’operato del suo esecutivo si pone in linea con un processo avviato ad inizio anni Novanta[59].

È un Prodi ancora all’attacco anche quello che si muove tra il Consiglio europeo di Amsterdam e l’intervista del 6 agosto pubblicata sul “Welt Am Sonntag”. Pochi giorni prima dell’importante consiglio europeo riceve un memorandum dal suo ministro degli Affari esteri Lamberto Dini, nel quale quest’ultimo in maniera nemmeno troppo velata gli suggerisce di sfruttare la recente vittoria elettorale di Jospin, per creare un asse con Parigi nella direzione di una lettura meno monetaristica del Trattato di Maastricht. È ancora Dini a sottolineare l’indisponibilità tedesca a trattare i temi della crescita e dell’occupazione. È infine Berlino, sempre a detta di Dini, a favorire il clima di incertezza su quando e chi farà parte del primo gruppo: è un’incertezza che finisce soltanto per incentivare la finanza speculativa[60]. Ed è proprio su questo punto che Prodi insiste, scrivendo a Santer in vista del Consiglio europeo di Amsterdam, ribadendo gli sforzi italiani, il rispetto che questi meritano e la necessità di date e tempi certi[61].

Gli esiti del Consiglio europeo di Amsterdam sono giudicati insoddisfacenti dalla diplomazia italiana e in particolare da parte del titolare della Farnesina, il quale parla ancora della necessità che l’Italia si ponga alla testa dei Paesi che vogliono il rafforzamento dell’integrazione (senza dimenticare una dimensione istituzionale che presto sarà stravolta dai futuri allargamenti).

L’equilibrio interno/esterno sembra ben presente nell’ottica di Prodi. Non a caso, con un certo ottimismo (ma anche consapevole dei rischi potenziali di Rifondazione Comunista negli equilibri interni alla sua maggioranza) il 4 luglio, in Consiglio dei ministri, dichiara chiusa con successo la fase del risanamento e pronta a decollare quella per il rilancio dell’occupazione e lo sviluppo industriale.

Parlando al quotidiano tedesco “Welt Am Sonntag” il 6 agosto 1997, Prodi conferma il suo approccio determinato. È in particolare il rapporto italo-tedesco ad essere in questione. Se l’intesa con Kohl si sta consolidando, non altrettanto si può affermare della fiducia diffusa presso la pubblica opinione tedesca nei riguardi della credibilità economica del nostro Paese. Prodi punta il dito sul clima da campagna elettorale che sta vivendo la Germania (si voterà nel 1998) e sul fatto che la CDU/CSU fatica a raccogliere consenso sui temi dell’integrazione europea. Ecco le parole del presidente del Consiglio:

Noi siamo molto preoccupati da quando sappiamo che alcuni importanti uomini politici in Germania legano l’esclusione dell’Italia dall’Europa alla vittoria della loro battaglia elettorale. Lo considero un grave e pericoloso errore: comunque io voglio raggiungere uno scopo, e cioè l’entrata dell’Italia nella moneta unica, e per questo ho dovuto chiedere molti sacrifici al mio Paese.  Per questo metto in gioco la mia personale carriera politica. Non può essere che il destino dell’Italia venga sacrificato per la carriera di politici tedeschi. Questo è un gioco pericoloso[62].

Quando l’intervistatore fa un parallelo tra gli scontri sull’euro e quelli su Schengen ancora una volta Prodi non esita a stigmatizzare la strumentalità dell’utilizzo del tema dell’immigrazione per fini elettorali e loda l’equilibrio di Kohl proprio sul compromesso raggiunto su Schengen. Ma è la chiusura ad essere particolarmente offensiva. Toccato sul tasto dolente del potenziale ricatto sempre all’orizzonte da parte di Rifondazione Comunista, contraria a Maastricht e critica sulla permanenza italiana nella Nato, Prodi conclude: “Rifondazione Comunista concretamente ha sostenuto il mio governo in tutte le dure decisioni che riguardano l’Europa. Vorrei che anche in Germania vi fosse sui temi europei la stessa unità di volontà che vi è in Italia”[63].

Tempo 3 – Dall’ottobre “maledetto” all’ultimo rilancio

L’impressione che l’ultimo trimestre dell’anno sia quello decisivo per le sorti dell’Italia nella “corsa all’euro” è subito confermata dalla rapidità e solidità mostrate dal governo Prodi nel licenziare la finanziaria 1998. Questa comporta interventi per 25 mila miliardi, con previsione di tagli di spesa su pensioni e aumento dell’Iva stabilito per decreto. I malumori di sindacati e Rifondazione crescono e il partito di Bertinotti non tarda ad aprire la crisi politica. Il primo ottobre il braccio di ferro tra Prodi e Bertinotti diventa realtà. Il leader di Rifondazione annuncia il “no” del suo partito alla finanziaria e Prodi ribatte che la stessa non sarà ritirata, né rivista. A questo punto dimensione interna e dimensione europea finiscono per intrecciarsi. Per semplificare, si può affermare che Prodi riesca a trovare il “bandolo della matassa” grazie alla sponda francese. Il 3 ottobre Prodi, il primo ministro Jospin e il presidente Chirac si incontrano per un bilaterale a Chambéry (l’occasione è l’avvio dei lavori per il potenziamento dell’alta velocità attraverso il traforo del Fréjus). Sul tavolo in realtà vi sono questioni politiche di più ampia portata. Da una parte la crisi politica italiana oramai aperta, con l’ipotesi nemmeno troppo assurda di una caduta del governo Prodi. E dall’altro, naturalmente, il tema del varo della moneta unica unito alle riflessioni del dopo Amsterdam. Ebbene l’endorsement francese a sostegno del governo Prodi è totale.

La politica di Jospin sui temi del lavoro (in particolare il tema delle 35 ore) è presentata dallo stesso primo ministro francese in maniera cauta, come punto di arrivo e non come provvedimento da varare nella sua totalità nell’immediato. Si mostra insomma una possibile “via francese” alla risoluzione della crisi italiana. Il documento congiunto firmato dai due ministri del lavoro, Aubry e Treu, parla di “flessibilità del mercato del lavoro e riduzione dell’orario in modo che risulti veramente utile per creare nuova occupazione”. Ma non si fanno riferimenti a scadenze e si ricorda che anche Parigi non ha ancora agito a livello legislativo. E non a caso Prodi riuscirà nella settimana successiva a garantirsi nuovamente il sostegno di Rifondazione promettendo a Bertinotti il varo delle 35 ore a partire dal 2001 (con grande sdegno di Confindustria). Sul fronte europeo è Chirac a lanciare una vera e propria ancora di salvataggio nei confronti di Romano Prodi. Accogliendo il primo ministro italiano, il presidente francese non esita ad affermare: “L’Italia non ha solo la volontà, ma anche la vocazione per partecipare all’Euro dal ‘99″ dice. E aggiunge: “Sento parlare di crisi, non ci posso credere”[64]. Al di là della dimensione “strumentale” delle parole di Chirac (è chiaro da un lato che il presidente francese deve ritagliarsi un ruolo nella complessa gestione della nuova coabitazione ed è altresì chiaro che la leadership in crisi di Kohl apre, almeno potenzialmente, spazi maggiori al presidente francese, in carica dal 1995 e con ancora cinque anni di prospettiva sicura di fronte a sé), Prodi riesce a risolvere la confusa crisi di metà ottobre e il 16 ottobre il governo, dopo essere stato rinviato alle Camere da Scalfaro, blinda la fiducia. Peraltro sei giorni dopo l’iter delle riforme della Commissione bicamerale sembra subire una svolta positiva con il voto bipartisan (Popolari, PDS, Forza Italia e AN) sull’ipotesi semipresidenziale.

Ma la vera e propria offensiva di autunno ha una dimensione non pubblica che si sta concretizzando, come mostrato da un lungo documento redatto il 26 ottobre 1997 e poi sottoposto ai ministri degli Esteri e del Tesoro e al numero uno di Bankitalia Antonio Fazio in una riunione riservata a Palazzo Chigi il 20 novembre[65].

L’obiettivo principale è quello di dare vita ad un coordinamento tra le principali istanze più direttamente coinvolte nella preparazione dell’Unione monetaria, appunto la presidenza del Consiglio, i ministeri degli Esteri e del Tesoro e la Banca d’Italia. Se la prima riunione dovrà svolgersi a livello di numeri uno, Prodi indica subito nello schema chi dovrà concretamente animare il “gruppo dei Quattro” (sulla falsariga di quello che nel secondo semestre del 1990 aveva gestito la presidenza di turno italiana dell’allora Cee): Roberto Nigido come coordinatore per Palazzo Chigi, Mario Draghi per il Tesoro, Umberto Vattani per gli Esteri e Fabrizio Saccomanni per la Banca d’Italia (con l’aggiunta poi anche di Vittorio Grilli, Silvio Fagiolo e Pierluigi Ciocca).

Quale deve essere nel concreto il ruolo del “gruppo dei Quattro”? Si parte dalla consapevolezza che i tempi oramai siano maturi e che tra marzo e maggio del 1998 la partita dell’euro sarà chiusa. Si sottolinea poi che le principali perplessità ancora nutrite, in particolare dal Ministero delle finanze tedesco e dalla Bundesbank, si concentreranno presumibilmente non tanto sui conti nell’immediato ma sulla “sostenibilità” del processo di risanamento italiano sul medio-lungo periodo.

Quindi il gruppo dovrà prima di tutto controllare che il punto di vista nei confronti dell’Italia non si formi su informazioni scorrette o calcoli statistici errati. E in secondo luogo influire efficacemente sulle valutazioni che riguardano l’Italia. Per questo secondo punto Prodi parla della necessità di preparare in tempi brevi un Rapporto sul Processo di Convergenza dell’Economia Italiana e sulla sua Sostenibilità. Un punto sul quale il presidente del Consiglio insiste particolarmente è che il traguardo dell’euro deve essere inserito in un più lungo percorso di risanamento complessivo dell’economia nazionale avviato dal governo Amato nel 1992.

A meno di due mesi dalla preparazione del documento informale e ad un mese esatto dalla prima riunione del “gruppo dei Quattro”, Nigido può scrivere a Prodi che il 22 dicembre si svolgerà una nuova riunione a Palazzo Chigi (alla presenza di Dini, Ciampi e Fazio) nel corso della quale verrà presentato il rapporto commissionato. Una volta ottenuto il via libera (Nigido presenta già una bozza), compito suo, di Draghi, Vattani e Saccomanni sarà quello di illustrarlo ai partners europei e alle principali istituzioni incaricate di monitorare i conti italiani (Commissione, IME e OCSE tra gli altri). Nigido presenta già una serie di date, nel mese di gennaio e febbraio, con relative capitali che riceveranno la visita degli “sherpa” italiani. Oltre agli aspetti tecnici, la bozza del documento è interessante perché mostra come il gruppo stia lavorando anche per raccogliere informazioni e dossier su tutti i Paesi membri, con l’obiettivo di trovare argomenti affinché il dibattito europeo non finisca per concentrarsi soltanto sull’Italia (la ricerca è quella di cosiddetti “diversivi”)[66].

Se l’“offensiva” deve garantire la conquista dell’obiettivo in primavera, le settimane dedicate alle festività di fine anno disegnano un quadro dell’immediato futuro a tinte rosee per il governo Prodi. Non solo il 23 dicembre la finanziaria 1998 ottiene l’ultimo voto positivo del Parlamento, ma il giorno precedente è stato il Fondo Monetario a consegnare il cadeau più desiderato. Secondo le stime provenienti da Washington l’Italia ha raggiunto l’obiettivo del 3%, mentre Parigi e Berlino sono ferme al 3,1% nel rapporto deficit/Pil. Facendo sfoggio di moderato ottimismo, il ministro Ciampi può addirittura aprire l’anno, il 2 gennaio, parlando del 2,7% per l’anno appena concluso[67].

Nonostante il bilaterale italo-tedesco svoltosi a Roma il 23 gennaio 1998 non abbia eliminato le numerose perplessità di Berlino (tenute a freno con sempre maggiore difficoltà da un cancelliere Kohl in calo costante nel gradimento dei suoi cittadini, in larga parte proprio per le sue posizioni europee), è un Prodi particolarmente volitivo quello che si presenta a Bruxelles il 28 gennaio per  presentare alla Commissione Santer il quadro complessivo del lavoro svolto nell’ultimo anno e mezzo di riforme macro-economiche[68]. Al termine degli incontri è lo stesso presidente del Consiglio a non nascondere il suo ottimismo (“Personalmente non ho dubbi: l’Italia sarà dentro”) e addirittura dichiarare in un’intervista alla Bbc due concetti chiari. Prima di tutto l’Italia ha un peso a Bruxelles inferiore a quello reale e il suo lavoro ha anche come obiettivo quello di interrompere questo trend. In secondo luogo l’obiettivo dell’Italia una volta completato il risanamento sarà quello di incidere nella “sostanza” nella vita politica europea. E ai cronisti che con insistenza chiedono se fosse riuscito a “convincere tutti”, è un Prodi al limite dello stizzito quello che replica: “Non ho il compito di convincere i miei partner. Non sono un assistente sociale e nemmeno un confessore. Io ho il compito di svolgere il mio dovere, che poi vuol dire governare l’economia in modo stabile. E su questo ho avuto il sostegno e l’apprezzamento di molti colleghi europei. Ma anche i mercati credono in noi e nel nostro ingresso nella moneta unica”[69].

In realtà che il quadro per il presidente del Consiglio non sia certo sgombro da incognite e possibili problematiche è dimostrato da un lato dall’ambiguità, almeno a livello pubblico, costantemente dimostrata dal cancelliere Kohl. Rispondendo ad alcune domande della stampa a margine del Forum economico di Davos, dieci giorni dopo l’incontro romano con Prodi, Kohl non esita infatti ad affermare che “se in Europa fossimo tutti tedeschi, non sarebbe simpatico. Il primo della classe non è mai amato. Ma se fossimo tutti italiani, non so dove andremmo a finire”[70].

Prodi è senza dubbio consapevole della dimensione propagandistica e più finalizzata agli equilibri interni al suo partito e alla sua opinione pubblica di queste parole di Kohl e non a caso più volte ad inizio anno cerca di limitare l’ostilità “anti-tedesca” del suo ministro degli Esteri Dini, ribadendo la sua convinzione: l’Italia verrà giudicata su fatti concreti e oggettivi. Bisogna smettere di pensare che Kohl possa farsi influenzare da emotività e umori di ampi settori dell’opinione pubblica[71]. Peraltro lo stesso Prodi, in un’intervista rilasciata a “Der Spiegel” sul finire del 1997, era stato piuttosto sbrigativo in relazione alle critiche tedesche all’Italia, ricordando che “la Germania dovrebbe considerarsi fortunata, se noi parteciperemo. L’Europa è nata da due grandi culture, quella latina e quella germanica. Se manca una di queste due manca l’Europa”[72].

Ma c’è anche un fronte interno che impensierisce Prodi. Infatti a partire dal 22 gennaio 1998 si inaugura il progetto di nuovo raggruppamento di centro guidato da Francesco Cossiga che, a metà febbraio, conduce alla nascita dell’UDR. Ad inizio febbraio poi, a Firenze, D’Alema inaugura gli Stati generali della sinistra, che conducono alla trasformazione del PDS nei Democratici di Sinistra. E infine non si deve nemmeno dimenticare che lo stesso mese di febbraio si era aperto con la sostanziale chiusura di ogni ipotesi di riforma istituzionale, a seguito della rottura berlusconiana sull’ipotesi di legge elettorale a doppio turno (anche se formalmente la chiusura dell’esperienza della Bicamerale D’Alema-Berlusconi si ha nel giugno successivo). Se da un punto di vista generale il sistema mostra evidenti segnali di difficoltà nello strutturarsi in base alle caratteristiche di un moderno bipolarismo di impronta europea, fondato sulla competizione tra liberal-conservatorismo e socialdemocrazia riformista, nello specifico sembrano evidenziarsi le differenze presenti all’interno dello schieramento uscito vincitore nella primavera del 1996. È l’idea stessa di Ulivo, concepita da Prodi come anticamera per la nascita di un futuro “Partito Democratico”, che in maniera sempre più evidente si contrappone a quella D’Alema-Marini, i quali considerano l’Ulivo stesso come coalizione di partiti, fondata sul dualismo PDS-PPI. Anche questa evoluzione, una volta esauritasi la dimensione “propulsiva” rappresentata dalla “rincorsa europea”, contribuirà a rendere complicato il cammino dell’esecutivo guidato da Romano Prodi[73].

Tempo 4 – Un marzo “dolcissimo” e un “maggio radioso”

Se la primavera del 1997 aveva segnato uno dei punti di maggiore difficoltà nella marcia di avvicinamento alla moneta unica, il marzo 1998 può essere definito “dolcissimo” per il governo Prodi.

Già sul finire del mese di febbraio, Prodi riceve dal suo consigliere speciale Nigido le informazioni relative agli incontri, tutti sostanzialmente positivi, effettuati dal “gruppo dei quattro” nelle principali capitali europee[74]. E’ di conseguenza un Prodi sereno quello che il 7 marzo scrive a Santer per ringraziarlo del sostegno che nei mesi ha voluto concedere all’Italia (egli insiste molto in questa missiva che il vero attore è l’Italia e il suo governo è stato soltanto un “facilitatore” di un movimento di popolo) e nell’annunciargli che ora “la casa è stata messa in ordine”. Per poi aggiungere che “la cultura della stabilità è divenuta patrimonio comune, è la base su cui fondare la crescita”[75].

Questa è la parola chiave che domina la seconda parte della lettera di Prodi. “Fatti i compiti” (chiosa a Kohl) è tempo di guardare al futuro. E qui le parole di Prodi sono evocative: “l’impresa comune che prenderà avvio tra meno di due mesi al Consiglio Europeo del 2 maggio prossimo potrà avere successo solo se sarà il motore di crescita e creazione di posti di lavoro”.

Una volta completato il percorso di convergenza è tempo del rilancio degli investimenti. È evidente sia per il tono, sia per la sostanza che le aspettative italiane per un ruolo di primo piano sui temi sino a questo momento trascurati (per volontà tedesca) dell’occupazione e della crescita sono molto alte.

Due giorni dopo, il 9 marzo, Ciampi si reca a Bruxelles per illustrare il nuovo DPEF, che dovrà garantire proprio la sostenibilità del risanamento italiano e ottiene il plauso della Commissione. E di lì a poche settimane, precisamente il 25 marzo, l’Italia è ammessa ufficialmente a far parte del nucleo di 11 Paesi che il 2 maggio sanciranno la nascita della moneta unica[76].

Quando il 15 aprile 1998 Prodi presenta alla maggioranza e alle parti sociali il DPEF per il 1999 è evidente quanto il messaggio sia oramai spostato sulla dimensione politica interna piuttosto che su quella europea. Non a caso in un appunto che l’economista Paolo Onofri redige per il presidente del Consiglio il 9 aprile precedente, si insiste molto sulla necessità di descrivere l’azione di governo dell’ultimo biennio come finalizzata allo stesso tempo all’interesse del progetto europeo e del Paese. Altro punto determinante è poi l’insistenza sulla dimensione di prospettiva, a proposito della quale si sottolinea come non dovrà più essere la “riduzione del disavanzo” a guidare l’operato del governo, bensì quella “del rapporto debito/pil, della spesa e della riduzione della pressione fiscale”. Per concludere che “dopo il risanamento, il nuovo obiettivo sarà la modernizzazione del Paese”[77].

Il 20 aprile Prodi scrive nuovamente a Santer e a tutti i dieci partner impegnati nella costruzione della moneta comune per presentare il già citato DPEF in vista del Consiglio europeo di inizio maggio. Le rassicurazioni maggiori sono dedicate al fatto che la “maggioranza parlamentare ha già garantito” la condivisione e non a caso nella sua risposta Santer si auspica un “rapido via libera del Parlamento”[78].

La ricerca di un nuovo slancio per il suo esecutivo e i richiami alla tenuta della sua maggioranza sono fattori senza dubbio significativi e che segneranno, come è noto, gli ultimi mesi dell’esperienza politica del governo Prodi[79].

Nell’immediato però giungono a Prodi i complimenti calorosi di Karl Lamers, il quale il 4 maggio scrive al presidente del Consiglio italiano per complimentarsi del traguardo raggiunto[80]. Ma l’esponente di spicco della CDU, nonché portavoce di politica estera del gruppo parlamentare al Bundestag, non si limita ad un messaggio di cortesia. Parla di un avvicinamento tra i due Paesi nel corso dell’ultimo anno, proprio grazie all’operato del governo Prodi e infine fa riferimento esplicitamente alla necessità di un dialogo “trilaterale” che aggiunga cioè all’asse franco-tedesco anche Roma. Una “chiamata” a collaborare particolarmente significativa se si pensa che si tratta dello stesso Lamers (già teorico nel 1994 con Schauble dell’Europa a due velocità) che il I febbraio 1997 aveva dichiarato a “la Repubblica”, in maniera piuttosto sprezzante ed ultimativa: “L’Italia è la culla della cultura comune europea. Ma questo non significa che non debba rispettare i criteri di convergenza” e ancora: “Il primato della politica? Macché, se l’Italia vuole entrare nell’Unione monetaria sappia che quel che conta sono i numeri!”[81].

Da notare che Romano Prodi risponde a Lamers soltanto il 29 maggio, in maniera molto cordiale, ribadendo che la partecipazione italiana all’euro si coniuga alla “consapevolezza del nostro ruolo fondamentale nella costruzione dell’Unione Politica e nell’approfondimento e ampliamento delle politiche comuni”[82].

Conclusione

Colui che si esprime in questo modo, è dunque un presidente del Consiglio che rivendica i risultati ottenuti e prefigura la possibilità di un futuro protagonismo italiano a livello continentale, frutto della credibilità maturata nell’ultimo anno e mezzo di sforzi e sacrifici. Dopo aver mostrato a tutta l’Europa comunitaria l’affidabilità di una classe dirigente di sinistra riformista, si apre una “fase due” che dovrebbe confermare e consolidare tali caratteri di normalità, responsabilità e credibilità politica. I mesi successivi avrebbero in realtà dimostrato come una parte consistente di questa stessa classe dirigente, una volta archiviata la cosiddetta “occasione dell’Europa”[83], decida di rimettere in discussione questo patrimonio acquisito, contribuendo così al rallentamento della complessiva evoluzione del sistema politico italiano[84].

[2] A. Varsori, La Cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 a oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 380.

[3] S. Gherardi, Rétablir la confiance pour consolider la lire, in ‟Le Monde”, 16 gennaio 1995.

[4] Philippe Séguin è un rappresentante del gollismo sociale, leader del fronte del “no” a Maastricht e presidente dell’Assemblée nationale, nonché grande sostenitore di Chirac in campagna elettorale e creatore, con Henri Guaino, dello slogan “ridurre la frattura sociale”.

[5] Sul posizionamento, le divisioni e ricomposizioni dei gollisti di fronte al trattato di Maastricht si veda: J. Pozzi, Le RPR face au traité de Maastricht: divisions, recompositions et réminiscences autour de la dialectique souverainiste, in “Histoire@Politique”, 24, 2014, pp. 131-152.

[6] H. De Bresson, M. Scotto, Chirac réaffirme que les engagements de Maastricht seront tenus, in ‟Le Monde”, 20 maggio 1995.

[7] R. Petri, L’immagine dell’economia italiana nella stampa economica tedesca, in L’Italia repubblicana vista da fuori, a cura di S. Woolf, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 325-331.

[8] Dal piano Werner negli anni Settanta al negoziato del trattato di Maastricht all’inizio degli anni Novanta, Hans Tietmeyer è stato coinvolto in prima persona a tutte le tappe determinanti della costruzione dell’Europa e monetaria.

[9] L. Delattre, Hans Tietmeyer, le grand prêtre du deutschemark, in ‟Le Monde”, 21 marzo 1995.

[10] M. Battocchi, L’ingresso dell’Italia nell’euro. La battaglia diplomatica per l’accesso alla moneta unica europea (1996-1998), in “Rivista di Politica Economica”, luglio/settembre 2010-2011, pp. 35-82.

[11] http://www.thefederalist.eu/site/index.php?option=com_content&view=article&id=1131:riflessioni-sulla-politica-europea&lang=it

[12] A. Tarquini, Italia fuori dall’Europa di Kohl, in “la Repubblica”, 2 settembre 1995, p. 11.

[13] F. Papitto, Europa senza frontiere. L’Italia arriverà in ritardo, in “la Repubblica”, 10 febbraio 1995, p. 11.

[14] F. Papitto, Chirac e Dini ai ferri corti, in “la Repubblica”, 28 giugno 1995, p. 13.

[15] Si pensi in primo luogo a A. Quadrio Curzio, Noi, l’economia e l’Europa, Il Mulino, Bologna 1996, in cui l’autore illustra le azioni che il nuovo esecutivo avrebbe dovuto intraprendere per agganciare il gruppo di testa dell’Unione europea e i sacrifici necessari per restarci.

[19] M. Piermattei, Crisi della Repubblica e sfida europea. I partiti italiani e la moneta unica (1988-1998), Clueb, Bologna 2012.

[20] A occuparsi della valutazione saranno organismi internazionali quali Ecofin, Commissione e Istituto monetario europeo.

[21] Per inflazione controllata si intende che essa non ecceda la media dei tre paesi più virtuosi di oltre l’1,5%. Nella primavera del 1996 l’Italia è invece al 4%, contro l’1,2% di Germania, Finlandia e Lussemburgo.

[22] L. Covatta, Menscevichi. I riformisti nella storia della Repubblica italiana, Marsilio, Venezia 2003, pp. 232-233.

[23] Per una ricostruzione autobiografica, che descrive anche il passaggio all’interno del governo Prodi, si veda: C.A. Ciampi, Da Livorno al Quirinale. Storia di un italiano. Conversazione con Arrigo Levi, Il Mulino, Bologna 2012.

[24] Per una ricostruzione di taglio autobiografico che dedica ampio spazio alla fase dell’eurocomunismo, di cui Napolitano fu tra i protagonisti, rinvio a: G. Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Laterza, Roma-Bari 2006.

[25] M. Pirani, Il capitale di Prodi, in “la Repubblica”, 22 giugno 1996, p. 1.

[26] M. Monti, Che delusione così non si va in Europa (intervista di A. Bonanni), in “Corriere della Sera”, 28 giugno 1996.

[27] Archivio Romano Prodi, Lettera di Jean-David Levitte a Roberto Nigido, il 1° ottobre 1996.

[28] F. Venturini, I rischi di autogol, in “Corriere della Sera”, 23 giugno 1996.

[29] Ancora nel 2010 Sergio Romano ricordava come “l’episodio spagnolo ebbe una parte importante nella storia della nostra ‘marcia all’euro’ […]. Dobbiamo l’euro, quindi, all’orgoglio spagnolo e alle indiscrezioni di Aznar”. S. Romano, Prodi e Aznar a Valencia. Effetti di un vertice fallito, in “Corriere della Sera”, 17 maggio 2010.

[30] R. Prodi, L’Italia era pronta a entrare nell’euro da subito, nessun tentativo di rinvio, in “Corriere della Sera”, 20 maggio 2010. Un interessante incontro tra il candidato presidente del Consiglio Romano Prodi e l’allora direttore generale del Ministero del tesoro Mario Draghi, il 26 aprile 1996, aveva già delineato chiaramente le due opzioni sul terreno. I percorsi da seguire potevano essere due, così emergevano dall’incontro con Draghi. Da una parte “mantenere invariato il sentiero di rientro, che porta al 3% alla fine del 1998. Questo implica di poter fare una manovrina da 10.000 milioni, di anticipare a giugno la legge di bilancio e si fa il DPEF. Il primo costo di questo è che si accetta di essere fuori da Maastricht e che i tassi di interesse calano poco. Inoltre la manovra (essendo a metà anno) deve essere il doppio. È inoltre l’ammissione di essere fuori dalla moneta unica. Inoltre la manovra non è collegata ad un progetto politico di ampio respiro”. La seconda opzione prevede di “anticipare il rientro al 31 dicembre 1997. Questa seconda strada ha un prerequisito, che questa manovra venga aiutata da Germania e Francia. È il recupero dell’Italia all’Europa. Si fa subito il bilancio: invece di farlo di un esercizio lo si fa per 18 mesi. […] Tutto viene finalizzato alla finanziaria del 1997”. La lunga citazione è tratta dai Diari inediti di Romano Prodi.

[31] Ibidem.

[32] Archivio Romano Prodi, Lettera inviata da Romano Prodi a Helmut Kohl e Jacques Chirac il 6 settembre 1996.

[33] “La legge finanziaria per l’anno 1997, adottata dal governo nel corso di una interminabile riunione consente all’Italia di rispondere ai criteri di Masstricht, con il gruppo di testa, preservando al contempo le fondamenta dello stato sociale”. S. Aloise, Rome met en place un «impôt pour l’Europe», in ‟Le Monde”, 29 settembre 1996.

[34] G. Martinotti, Prodi e Chirac fanno pace a Napoli, in “la Repubblica”, 4 ottobre 1996, p. 5.

[35] J-M. Colombani, Le doute, in “Le Monde”, 4 ottobre 1996.

[36] H. De Bresson, Les hésitations de Londres sur l’UEM inquiètent moins que le volontarisme de Rome, in ‟Le Monde”, 10 ottobre 1996.

[37] Archivio Romano Prodi, APCM – 102/GP, Lettera inviata da Romano Prodi a Jacques Santer il 20 novembre 1996, con l’obiettivo di delineare le linee guida dell’eurotassa (“Contributo per l’Europa”) introdotta dal governo italiano. Scrive il Presidente del Consiglio: “Caro Presidente, le scrivo per portare alla sua attenzione ulteriori elementi di valutazione relativamente all’introduzione, in Italia, del Contributo per l’Europa. Come Ella già sa, si tratta di uno sforzo straordinario richiesto al Paese nell’ambito di un’importante azione di risanamento che il governo italiano sta compiendo per convergere verso i parametri indicati nel trattato di Maastricht. Esso non va valutato al di fuori di tale azione che, tra manovra collegata alla legge Finanziaria 1997 e manovra di aggiustamento dei conti pubblici per il 1996, ammonta a circa 80.000 miliardi di lire. […] Il risanamento della finanza pubblica rappresenta un grande sforzo per i lavoratori e le famiglie italiane. Esso è naturalmente un passaggio irrinunciabile per l’ingresso dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea già a partire dal 1° gennaio 1999. Gli effetti che ne deriveranno porteranno vantaggi consistenti in termini di riduzione dell’inflazione e dei tassi di interesse. Tali vantaggi favoriranno una fase di crescita stabile e duratura che consentirà di aumentare la competitività e l’occupazione in Italia. L’Italia potrà quindi beneficiare di una maggiore stabilità economica e attestarsi su di un livello di tassi di interesse sul debito pubblico in linea con quello dei paesi europei più virtuosi”.

[38] A. Panebianco, Le promesse nel cassetto, in “Corriere della Sera”, 29 settembre 1996.

[39] D. Taino, Economisti di destra e di sinistra unanimi: la manovra non basta per l’Euro, a marzo altra stangata, in “Corriere della Sera”, 20 ottobre 1996.

[40] A. Padellaro e C. Tito, Ma questo Prodi ci sa fare?, in “L’Espresso”, 10 ottobre 1996.

[41] F. Croigneau, Rome condamné à être prêt pour l’euro dès 1997, in ‟Les Echos”, 23 dicembre 1996.

[42] Su questo punto qualche giorno prima era intervenuto il ministro della Difesa Beniamino Andreatta ricordando i complicati anni Ottanta da ministro del Tesoro, affermando: “Allora dovevo andare a Bruxelles, con il governatore Ciampi, a svalutare, dicevo a tutti che era l’ultima volta che l’Italia chiedeva una svalutazione”: E. Polidori, Andreatta ricorda: “Ogni sei mesi lira sotto tiro”, “la Repubblica”, 20 dicembre 1996.

[43] Su posizioni simili Mario Monti alcuni giorni dopo le parole di Romano Prodi: “L’Italia ha pagato un prezzo molto alto per aver avuto un governo della moneta e della finanza non indipendente dalla politica. Dal periodo fascista fino agli anni ’80 inoltrati, il compito della banca centrale e del sistema creditizio è stato asservito a finalità politiche diverse dalla stabilità monetaria: promuovere la crescita anche a costo di un’inflazione alta; favorire il finanziamento del disavanzo pubblico a scapito dell’economia produttiva; consentire l’uso politico del credito; infine privilegiare la stabilità del sistema bancario (la foresta pietrificata) anziché la sua efficienza concorrenziale”, F. Rampini (intervista a M. Monti), Il cuore d’Europa non sarà nelle mani dei banchieri, “la Repubblica”, 27 dicembre 1996.

[44] Tutto ciò è già stato ben documentato grazie agli appunti dell’incontro Prodi-Draghi del 26 aprile 1996, vedi nota 30. La centralità di quella che può essere definita la vera e propria “scelta euro” è confermata dalle pressioni che lo stesso Prodi e il presidente della Repubblica Scalfaro operano affinché Carlo Azeglio Ciampi accetti l’incarico di ministro del Tesoro, eventualità peraltro richiamata anche in occasione del citato incontro Prodi-Draghi. Lo stesso Prodi è tornato di recente su questi temi con una lettera inviata al “Corriere della Sera” e poi ripresa anche da “Il Messaggero” L’Italia era pronta ad entrare nell’euro da subito, nessun tentativo di rinvio, 20 maggio 2010, come già ricordato ancora alla nota 30.

[45] Vedi anche su questo punto la testimonianza di C.A. Ciampi in U. Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi 1992-2006, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 75-76.

[46] “Non vedo trame occulte e io vi porterò in Europa”, in “la Repubblica”, 6 febbraio 1997.

[47] Archivio Romano Prodi, RP a J. Santer e ai Capi di Stato e di governo dell’Ue il 22 gennaio 1997.

[48] Archivio Romano Prodi, Verbale del Consiglio dei Ministri del 6 febbraio 1997.

[49] Kohl: “Italia, fai i compiti”, in “la Repubblica”, 5 febbraio 1997.

[50] R. Petrini, Piano per escludere l’Italia, ivi, 6 febbraio 1997.

[51] Di estremo interesse è l’editoriale con il quale Stefano Folli sottolinea l’importanza dell’incontro che ha preceduto quello tra Prodi e Kohl, tra lo stesso cancelliere tedesco e Massimo D’Alema. Nella lettura di Folli D’Alema avrebbe garantito a Berlino l’esistenza di una maggioranza solida e trasversale a favore dello sforzo europeo, maggioranza di scopo ed eventualmente di ricambio rispetto a quella che sta sostenendo il governo Prodi. E tutto ciò oltre a rassicurare Kohl, dovrebbe spingere il presidente del Consiglio in carica a non frenare sui temi delle riforme e del risanamento. Prodi “ha portato la garanzia che in Italia è al lavoro una nuova maggioranza che possiamo definire “europeista”, decisa a giocare le residue carte per tentare l’ingresso del Paese nel primo gruppo di Maastricht. O comunque determinata a concordare con i partner un piano di risanamento reale e non fittizio, nell’arco di due o tre anni. […] Non è alle viste una formale crisi di governo e Romano Prodi per adesso può stare tranquillo. Ma i fatti delle ultime ore dimostrano che un quadrilatero D’Alema-Berlusconi-Marini-Ciampi è all’opera per stringere i tempi. A Palazzo Chigi non sono più consentite timidezze”: S. Folli, Il garante e il garantito, “Corriere della Sera”, 7 febbraio 1997.

[52] “La Stampa” del 6 febbraio 1997 titola: Chirac: l’Italia con i primi nell’euro.

[53] Vedi su questo punto M. Bucarelli, L’Italia e le crisi nazionali nei Balcani occidentali alla fine del XX secolo, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. I. Fine della Guerra fredda e globalizzazione, a cura di S. Pons, A. Roccucci, F. Romero, Carocci, Roma 2014, pp. 274-275.

[54] F. Venturini, La maschera strappata, “Corriere della Sera”, 24 aprile 1997.

[55] S. Romano, Rinviare non è governare, “La Stampa”, 24 aprile 1997.

[56] Ibidem.

[57] A. Guastelli (intervista a V. Giscard d’Estaing), Ma quelle cifre sono pura fantasia, “Corriere della Sera”, 25 aprile 1997.

[58] G. Alvi, Rimetti a noi i nostri debiti, “la Repubblica”, 25 aprile 1997.

[59] Archivio Presidenza del Consiglio dei Ministri (APCM), 103 GP (Faldone DPEF), Nota per la stampa. Documento di Programmazione economico-finanziaria, 30 maggio 1997.

[60] APCM, 93 GP, faldone 8, Appunto non datato del Ministro degli Affari Esteri per Consiglio Europeo di Amsterdam del 16-17 giugno 1997.

[61] Archivio Romano Prodi, Lettera di R. P. a J. Santer in vista del vertice di Amsterdam del 16-17 giugno 1997.

[62] Copia dell’intervista è contenuta in APCM, 88 GP, faldone 2.

[63] Ibidem.

[64] C. De Gregorio, Lavoro, l’offensiva di Prodi, in “la Repubblica”, 4 ottobre 1997.

[65] APCM, schema redatto da Romano Prodi (RP) datato 26 ottobre 1997 e lettera di RP a Ciampi, Dini e Fazio datata 13 novembre 1997.

[66] APCM, R. Nigido a RP il 19 dicembre 1997.

[67] In realtà secondo la ricostruzione di Umberto Gentiloni Silveri, lo stesso Ciampi nel suo diario si sarebbe lasciato andare e avrebbe espresso un più convinto ottimismo. “Ho i dati del fabbisogno dello Stato. Ce l’abbiamo fatta! Telefono a Prodi (che è sulla neve). Quando lo rivedo per la prima volta nel nuovo anno, mi abbraccia (dopo essersi scherzosamente inchinato)”, in U. Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti, cit., p. 96.

[68] F. Manacorda, Prodi conti in regola, saremo nell’euro, “La Stampa”, 29 gennaio 1998.

[69] E Prodi avverte l’Europa: dobbiamo pesare di più, in “la Repubblica”, 29 gennaio 1998.

[70] Kohl frena l’entusiasmo di Prodi, ivi, 30 gennaio 1998.

[71] Archivio Romano Prodi, RP a Dini 23 gennaio 1998.

[72] Testo dell’intervista del 16 dicembre 1997 in APCM, 122, RP.

[73] Vedi interessanti considerazioni in G. Bianco, La parabola dell’Ulivo 1994-2000, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 187 ss.

[74] APCM, Nigido a RP il 26 febbraio 1998.

[75] APCM, RP a J. Santer il 7 marzo 1998.

[76] Ciampi: niente ubriacature, il rigore dovrà continuare, in “la Repubblica”, 27 marzo 1998; B. Spinelli, La Nazione reinventata, in “La Stampa”, 26 marzo 1998.  È anche lo stesso Ciampi a ricordare il momento di grande entusiasmo che si respira sia tra i colleghi ministri, sia a livello di opinione pubblica: “Un clima di grande festa che dal sindaco di Roma, Francesco Rutelli, si diffondeva nella piazza come in un grande abbraccio. Una vittoria inattesa, per molti impossibile da raggiungere. […] Anche chi non ci aveva creduto veniva per applaudire. È stato bello così. Un traguardo per tutti”, U. Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti, cit., pp. 96-97. Ciampi è descritto da “la Repubblica” come il “maggiore artefice dalla strategia europea”. Si passa poi a definirlo come un “tecnico prestato alla politica, […] che si è rivelato un fine navigatore politico, tanto fuori che dentro i confini del paese. Ha tessuto con pazienza la sua tela, ha conquistato credito sui mercati internazionali”, cit. in M. Riva, Carlo Azeglio il navigatore, “la Repubblica”, 26 marzo 1998.

[77] APCM, appunto di Paolo Onofri per RP, utilizzato poi da RP in occasione dell’incontro con Confindustria e sindacati il 9 aprile 1998.

La leggenda del cambio lira/euro

Secondo indiscrezioni poi definite non vere da Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio durante una cena avrebbe rivendicato il merito di aver salvato l’Italia dal default “preparato da Romano Prodi quando accettò il cambio lira-euro”. La smentita imporrebbe di cancellare tutto dal verbale; ma l’idea secondo cui il tasso di cambio sbagliato sia una specie di peccato originale per il nostro Paese è diffusa e viene tuttora ripetuta, in rete e non solo. Tipicamente, prende la forma: “Sì, è stato giusto entrare nell’euro, ma lo abbiamo fatto alle condizioni sbagliate”. Chi sostiene questa tesi però dovrebbe anche spiegare quale sarebbe stato, a suo avviso, il tasso di cambio corretto. Su questo punto i detrattori sono meno espliciti. Qualcuno sostiene che sarebbe stato più giusto entrare – diciamo – a 1.500 lire per un euro (invece che 1936,27). In questo modo, si argomenta, l’effetto sui prezzi sarebbe stato minore. Il nesso con l’inflazione non è del tutto chiaro, mentre è abbastanza evidente che una simile super-lira avrebbe completamente spiazzato le imprese italiane esportatrici: gli altri governi europei ne sarebbero stati ben felici, e dunque non ha senso l’eventuale accusa di aver “accettato” un cambio più favorevole per l’export. Al contrario, si può argomentare che occorreva puntare i piedi, insistere per strappare una lira ancora più svalutata. Però la storia ci racconta che la trattativa fu condotta in una situazione particolare. L’Italia era riuscita – contro le previsioni – a qualificarsi per l’ingresso nella moneta unica grazie ad alcune considerazioni geo-economiche della leadership tedesca, agli sforzi fatti per il risanamento ed alla reputazione personale di Carlo Azeglio Ciampi. Chi dice che si poteva ottenere di più, dovrebbe chiedersi se negli anni successivi la credibilità del nostro Paese sia cresciuta o diminuita rispetto a quella fase.

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MIGRANTI E RIFUGIATI. DATI

Quanti sono i rifugiati in Italia? Intendiamo quanti, fuggiti dal proprio paese perché vittime di persecuzioni, hanno ricevuto risposta positiva in questi anni alla domanda di protezione. E negli altri paesi europei, sono di più o di meno che da noi? È corretto parlare di invasione? E poi, l’Europa è davvero un continente sotto assedio?

Un recente sondaggio in Grecia ha registrato un dato che può sorprendere riguardo la percezione che si ha del fenomeno: circa la metà della popolazione ellenica crede che i rifugiati siano più del triplo (200mila) rispetto a quelli che si trovano realmente nel paese (circa 60mila).

E l’Italia? Due anni fa, in piena refugee crisis l’“invasione percepita” era in testa alle preoccupazioni e il 36% degli italiani riteneva che gli stranieri nel nostro paese fossero circa 20 milioni.

Proviamo a mettere un po’ d’ordine e a fare un po’ di chiarezza con l’aiuto del rapporto Mid-year trends dell’Unhcr, che presenta il quadro a giugno 2016.

Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu, i rifugiati nel mondo – ripetiamolo: non i richiedenti asilo, ma coloro che hanno ricevuto una risposta positiva – a metà del 2016 erano 16 milioni e 515.190. Circa 2 milioni e 100mila si trovano in Europa (e 2 milioni e 800mila nella sola Turchia), i restanti due terzi suddivisi tra altri tre grandi continenti: America, soprattutto Asia e Africa. Si tratta di tutti coloro che nel mondo hanno visto riconosciuto il proprio diritto individuale a essere protetti così come previsto dalla Convenzione firmata a Ginevra nel 1951 e aggiornata nel 1967 e dalle varie legislazioni nazionali.

Senza voler ridimensionare o amplificare le dimensioni degli arrivi di migranti e rifugiati in Italia, forse può essere utile, prima di gridare all’“invasione” come capita spesso sui giornali italiani, andare a vedere le dimensioni della presenza dei rifugiati in Italia e magari confrontarla con altri paesi europei e con quelli del Medioriente che più ospitano flussi di profughi.

Quanti sono 131mila rifugiati?

Passiamo all’Italia. In questi anni lo stato ha risposto positivamente (secondo le tre modalità previste: status di rifugiato, protezione sussidiaria e umanitaria) a circa il 40% delle domande d’asilo, una percentuale che nel 2016 è leggermente calataNegli anni il nostro paese ha accolto circa 131mila rifugiati (dato Unhcr giugno 2016).

Ma chiediamoci: quanti sono 131mila rifugiati sul totale della popolazione? L’“allarme invasione” è giustificato di fronte a questi numeri? Proviamo a confrontarli con quelli di altri stati europei. Per esempio, in Svezia la popolazione è circa un sesto di quella italiana (10 milioni) e i rifugiati sono 186mila, ovvero il 50% in più che nel nostro paese. In Germania (82 milioni di abitanti) i rifugiati sono 478mila, quasi 4 volte quelli presenti in Italia.

Due ogni mille

E allora, sono molti o sono pochi coloro che hanno ricevuto protezione in questi anni? Intanto sono quelli a cui la legge offre questo diritto. Ma proviamo ad avere uno sguardo obiettivo senza pregiudizi e facciamo qualche proporzione per avere un’idea della misura di questo fenomeno.

131mila su 60 milioni significa una proporzione del 2 per mille. Significa che per una cittadina di piccole dimensioni come Ivrea (To) che ha circa 24mila abitanti – se fosse rispettata la proporzione nazionale – sarebbero 46, in una come Avezzano (Aq) vivrebbero 90 rifugiati, in una città come Bologna sarebbero circa 800. Insomma, non proprio un’invasione.

Sufficiente come immagine? Ma proviamo a immaginarli tutti insieme questi 131mila rifugiati che vivono in Italia, anche da molti anni. Prendiamo uno spazio di quelli usati per le grandi manifestazioni o i concerti. Ecco, tutti i rifugiati in Italia non riempirebbero neanche la metà del Circo Massimo a Roma che, secondo una stima, riuscirebbe al massimo a contenere 340mila persone. Oppure a Piazza San Giovanni sempre a Roma, il grande slargo davanti alla basilica teatro di molte manifestazioni. Ecco anche lì ci sarebbero molti vuoti, se è veritiera la stima di una capienza di 200mila persone.

Due degli stadi più grandi in Italia – San Siro a Milano e l’Olimpico di Roma contengono circa 80mila spettatori ognuno – potrebbero ospitare tutti i rifugiati in Italia e farli assistere comodamente a due partite.

Cosa ci dicono questi confronti? Che malgrado la condizione di frontiera (ormai quasi unica) dell’Ue a sud, l’Italia ha una percentuale molto contenuta di rifugiati sul proprio territorio. Una percentuale che buone politiche di accoglienza e integrazione possono, senza difficoltà, trasformare da presunto problema in risorsa.

Negli ultimi anni la crescita demografica che ha interessato il nostro Paese è stata alimentata principalmente dalla componente straniera; la popolazione italiana si mostra sempre più orientata alla multietnicità.
Secondo il Dossier statistico Immigrazione del 2019 del Centro studi e Ricerche Idos, i cittadini stranieri residenti in Italia ammontano a 5.255.503 unità, pari all’8,7% della popolazione italiana (era il 6,5% nel 2008). Dal 2013 al 2018 i residenti stranieri sono aumentati del 6,8%.
Le acquisizioni di cittadinanza nel 2018 sono state 112.523. Il tasso di acquisizione di cittadinanza per mille residenti è 21,6.
Analizzando la distribuzione per età, si evidenzia che la popolazione straniera minorenne risulta pari al 20,2% del totale; gli ultra 65enni si fermano al 4,4%. I nati stranieri nel 2018 sono stati 65.444 e rappresentano il 14,9% dei nuovi nati nel nostro Paese. Gli studenti stranieri nelle scuole italiane sono oltre 841mila.
La distribuzione degli stranieri sul territorio nazionale risulta disomogenea: il 57,5% risiede nell’Italia settentrionale (il 33,6% al Nord-Ovest ed il 23,9% al Nord-Est), il 25,4% al Centro, solo il 17,1% nel Mezzogiorno (12,2% al Sud e 4,9% nelle Isole).
La metà dei residenti immigrati è di origine europea (50,2%; 30,1% Ue), poco più di un quinto africana (21,7%) e asiatica (20,8%), il 7,2% di origine americana. La nazionalità più rappresentata è quella romena (23%, oltre 1,2 milioni di unità), seguita da quella albanese (8,4%) e marocchina (8%), quarta quella cinese (5,7%), quinta quella ucraina (4,6%).
I migranti sbarcati in Italia raggiungono le 23.370 unità (2018), il 18% dei quali sono minori. 3.536 sono i minori non accompagnati sbarcati, 5.229 i minori non reperibili.
Le richieste di protezione internazionale ammontano a 59.950, il 32,2% delle quali accolte.
Dei nuovi permessi di soggiorno rilasciati nel 2018, il 52,4% ha come motivo la famiglia, il 41,6% l’asilo ed altri motivi umanitari, il 6% il lavoro.
Gli occupati stranieri sono 2.455.000, il 65,9% nei servizi (il 20,8% nel commercio, alberghi, ristoranti); il 27,7% nell’industria; il 6,4% nell’agricoltura, silvicoltura e pesca. Rispetto a dieci anni fa si registra un incremento degli immigrati attivi nei settori dei servizi e dell’agricoltura e, per contro, una flessione nell’industria (sia costruzioni sia industria in senso stretto).

I migranti che arrivano dai Balcani

“Immaginavamo che il 2022 fosse l’annus horribilis“, la premessa di Signoriello riguardo gli arrivi di migranti in Friuli Venezia Giulia attraverso la rotta balcanica, ma “questo inizio 2023 si presenta con numeri molto alti: i dati su gennaio e febbraio ci fanno capire che il flusso si intensifica”.

“Facendo un raffronto – ha spiegato il Prefetto e Commissario di governo in Friuli Venezia Giulia – se a gennaio 2022 forse potevamo essere nell’ordine di 150-170 tra rintracci e presentazioni spontanee di migranti negli uffici di polizia, a gennaio 2023 ne abbiamo superato mille. I rapporti ci evidenziano che il flusso è molto in crescita e vale anche per febbraio (524 il 24 febbraio). Numeri importanti in una situazione in cui – ha precisato – il sistema di accoglienza triestino è saturo.

Ma cosa si sta facendo per rispondere all’emergenza? “Con l’aiuto del Ministero dell’Interno stiamo cercando di operare ricollocamenti in ambito nazionale, ma c’è una pressione forte anche legata alla drammaticità della prosecuzione degli sbarchi, quindi non sempre è possibile”. Per quanto riguarda l’accoglienza Signoriello spiega che in questo momento “abbiamo circa 1.400 persone solo a Trieste. Dobbiamo essere anche consapevoli di non riuscire a fornire risposta a tutti coloro che vorrebbero trattenersi avanzando richiesta di protezione internazionale”.

1) Documenti National Security Archive

Clinton voleva “creare la partnership USA-Russia più stretta possibile”

Strobe Talbott ha visto la trasformazione russa come “il più grande miracolo politico della nostra era”

Clinton ha promesso di “fare tutto il possibile per aiutare le riforme democratiche della Russia ad avere successo”
 

Con la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il presidente Bill Clinton era determinato a non perdere un’opportunità storica per aiutare la Russia a trasformarsi in uno stato capitalista democratico, secondo una serie di documenti declassificati Documenti del Dipartimento di Stato pubblicati oggi dal National Security Archive.

La pubblicazione odierna include una trascrizione della prima conversazione telefonica tra Clinton e Eltsin nel 1993, un perspicace promemoria di transizione del Segretario di Stato uscente, Lawrence Eagleburger, e un briefing di alto livello del principale assistente di Clinton in Russia, Strobe Talbott. I documenti mostrano Clinton, i suoi consiglieri e i loro predecessori nell’amministrazione Bush alle prese con una serie di sfide politiche chiave, tra cui la presenza di armi nucleari in tre ex repubbliche sovietiche, il rapido crollo dell’economia russa e le crescenti tensioni tra il presidente Boris Eltsin e il Parlamento russo nel 1992. Anche se Clinton rifletteva su queste importanti scelte politiche, lui ei suoi consiglieri provarono una profonda empatia personale per il presidente russo in difficoltà e per il progetto di riforma che aveva intrapreso.

Declassificati in risposta alle richieste del Freedom of Information Act (FOIA) da parte del National Security Archive, questi documenti sono i primi punti salienti di una prossima raccolta di riferimenti sulle relazioni USA-Russia che coprono tutti gli anni ’90. Quel set, Relazioni USA-Russia dalla fine dell’Unione Sovietica all’ascesa di Vladimir Putin , sarà pubblicato da ProQuest come parte della pluripremiata serie Digital National Security Archive .

Ancor prima che William Jefferson Clinton diventasse il 42esimo presidente degli Stati Uniti, aveva sviluppato un profondo interesse per la Russia e la sua difficile trasformazione. Durante la sua campagna presidenziale, Clinton ha chiesto maggiori aiuti economici statunitensi alla Russia e ha criticato l’approccio cauto dell’amministrazione Bush. Nel suo discorso alla Foreign Policy Association a New York il 1° aprile 1992, il governatore Clinton ha parlato del sostegno ai cambiamenti rivoluzionari in Russia, che (insieme a una nota segreta dell’ex presidente Richard Nixon) [1] ha spinto l’amministrazione Bush ad annunciare la sua proprio pacchetto di aiuti. [2] Tuttavia, gran parte dell’assistenza promessa non si era mai materializzata. [3]

Il primo incontro di Clinton con Eltsin ebbe luogo durante la visita del presidente russo a Washington nel giugno 1992, due settimane dopo che Clinton divenne il presunto candidato democratico. A quel tempo, Eltsin era concentrato su Bush, convinto che avrebbe vinto la rielezione. Clinton era “un grande ammiratore di [Eltsin] da quando si trovava su un carro armato per opporsi a un tentativo di colpo di stato” nell’agosto 1991 e lo trovò “educato e amichevole ma leggermente condiscendente” nel loro incontro del 1992. [4] Clinton, tuttavia, ha subito preso in simpatia il corpulento russo con radici siberiane che ora era impegnato con passione a trasformare la Russia in una democrazia e in un’economia di mercato. Clinton ha deciso di fare della trasformazione della Russia la sua massima priorità di politica estera.

Affrontare il mondo post-Guerra Fredda è stata una sfida enorme per gli Stati Uniti quando Clinton è entrato in carica. Nel suo memorandum di transizione del 5 gennaio 1993 al Segretario di Stato designato da Clinton, Warren Christopher, il Segretario di Stato uscente Lawrence Eagleburger ha affermato che il destino della riforma russa sarebbe stato il fattore chiave per garantire la pace e la sicurezza in Europa (Documento 1) . Eagleburger era un diplomatico esperto e di alto rango ed ex aiutante di politica estera di Henry Kissinger che divenne Segretario di Stato quando Bush chiese a James Baker di unirsi alla sua campagna nel 1992. politica (“È l’economia, stupido!”). È interessante notare che il promemoria non contiene alcun accenno al futuro della NATO se non nel contesto del mantenimento della pace nell’ex Jugoslavia.

Mentre Eagleburger era principalmente preoccupato per le armi di distruzione di massa e la possibile proliferazione, Clinton voleva che le relazioni degli Stati Uniti con la Russia riguardassero molto più del controllo degli armamenti. Talbott ha ricordato come Clinton fosse totalmente immerso in ciò che stava accadendo in Russia durante la sua vacanza di lavoro all’inizio di gennaio 1993 a Hilton Head, nella Carolina del Sud. (Il presidente Bush era allora a Mosca per firmare il Trattato START II.) Secondo Talbott, “Clinton pensava molto alla Russia, ma non molto al controllo degli armamenti”. Il presidente eletto ha visto affrontare la crisi economica della Russia come la principale sfida della giornata. L’economia russa era in gravi difficoltà, poiché l’iperinflazione e la conseguente perdita di risparmi personali lasciavano un vero pericolo di fame durante l’inverno. [5]

Clinton ha fatto la sua prima telefonata a Eltsin due giorni dopo l’inaugurazione per esprimere il suo impegno a sostenere le riforme russe, usando più volte la parola “partnership” durante la conversazione. Eltsin era ubriaco quando ha risposto alla chiamata, secondo Talbott, che ha detto che le sue “parole erano confuse” e che “sembrava che ascoltasse a malapena ciò che Clinton aveva da dire”. L’ubriachezza del presidente russo “ha più divertito che scioccato” Clinton, cresciuto con un patrigno alcolizzato. Dopo la conversazione, ha descritto Eltsin a Talbott come un “candidato all’amore duro, se mai ne avessi sentito uno”. [6]  Ma finché Eltsin rimase impegnato nelle riforme democratiche, il suo bere non avrebbe fatto deragliare il rapporto. L’alcolismo di Eltsin sarebbe rimasto un tema durante la maggior parte dei 18 vertici tra i due leader.

La scelta di Talbott come “mano della Russia” di Clinton (Ambasciatore Generale e Consigliere Speciale del Segretario di Stato sui Nuovi Stati Indipendenti dell’ex Unione Sovietica) è stata simbolica e ha anche segnalato l’impegno personale del presidente nei confronti di Stati Uniti-Russia relazione. Talbott era amico personale e compagno di stanza di Clinton dai suoi giorni come Rhodes Scholar. Aveva una profonda esperienza nelle relazioni USA-URSS, parlava correntemente il russo ed era determinato a non perdere l’occasione di aiutare la Russia nel suo cammino verso la democrazia e il libero mercato. Nel suo libro, Talbott sottolinea che, in realtà, fu lo stesso Bill Clinton a “diventare il principale braccio destro del governo degli Stati Uniti in Russia, e così rimase per tutta la durata della sua presidenza”, a causa del suo profondo coinvolgimento nella politica nei confronti della Russia. [7]

Talbott vedeva la trasformazione russa come “il più grande miracolo politico della nostra era” e riteneva che, in caso di successo, avrebbe avuto un’importanza storica simile alla fondazione degli Stati Uniti e del suo sistema democratico (Documento 3). L’appassionato appello di Talbott a sostenere i riformatori russi suggerisce che la politica russa dell’amministrazione Clinton fosse genuina, sincera e ben intenzionata.

A partire da Gorbaciov, e ancora di più da Eltsin, i leader russi desideravano disperatamente l’istituzione di un nuovo sistema internazionale in cui la Russia sarebbe stata un vero partner dell’Occidente. Nel 1993, tutti gli elementi necessari sembravano essere presenti: l’impegno personale di Bill Clinton, la volontà della Russia di seguire l’esempio degli Stati Uniti su molte questioni internazionali e una buona esperienza di cooperazione produttiva nell’ambito del programma Nunn- Lugar . La politica russa di Clinton produrrà alcuni straordinari risultati (ironicamente la maggior parte dei quali nel controllo degli armamenti) e molte delusioni negli anni ’90. Ma in questo momento di grandi speranze nel febbraio 1993, il team russo di Clinton guardava al futuro con ottimismo.

Guggenheim Museum N. York

Il Solomon R. Guggenheim Museum è un museo di arte moderna e contemporanea, fondato nel 1937, con sede al numero 1071 della Quinta Strada, a New York, negli Stati Uniti d’America. La sua sede attuale è un’opera di Frank Lloyd Wright del 1943, tra le più importanti architetture del XX secolo.

Video Moma NOVEMBRE OTTOBRE 2022

GUGENNHEIM MUSEUM NEW YORK

Fotografiska Museum

The Museum of Modern Art MOMA

Il Museum of Modern Art di New York o MoMA è dedicato all’arte moderna e contemporanea. Questo museo è uno dei più grandi al mondo e ospita opere di Pablo Picasso, Jackson Pollock e Andy Warhol, solo per citarne alcuni. Le esposizioni cambiano di continuo, quindi ogni volta che si visita il MoMA è un’esperienza diversa. I biglietti qui sotto includono la possibilità di accedere saltando la fila, il che è piuttosto conveniente essendo questo uno dei musei più visitati di New York.

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Sequenza di video per montaggio che fanno parte del video principale

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“David LaChapelle, uno dei più importanti e dissacranti fotografi contemporanei. il suo concept ruta attorno al ritorno alla figura umana, a temi come il paradiso e le rappresentazioni della gioia, della natura e dell’anima, si uniscono al cosmo iconico, mitico, disseminato di stereotipi irriverenti e irridenti visioni post diluvio di LaChapelle, per continare a deliziare gli occhi e solleticare l’immaginario

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Ucraina Prima dell’invasione

Riportiamo qui di seguito, gli antefatti che mostrano la progettazione della provocazione alla Russia alla Base dell’Invasione

“Abbiamo abolito la storia. È vietato raccontare ciò che è accaduto in Ucraina prima del 24 febbraio 2022: gli otto anni di guerra civile in Donbass dopo il golpe bianco (anzi, nero) di Eromaidan nel 2014 e le migliaia di morti e feriti causati dai continui attacchi delle truppe di Kiev e delle milizie filo-naziste al seguito contro le popolazioni russofone e russofile che, col sostegno di Mosca, chiedevano l’indipendenza o almeno l’autonomia. Il tutto in barba ai due accordi di Minsk. La versione ufficiale, l’unica autorizzata, è che prima del 2022 non è successo niente: una mattina Putin s’è svegliato più pazzo del solito e ha invaso l’Ucraina. Se la gente scoprisse la verità, capirebbe che il mantra atlantista “Putin aggressore e Zelensky aggredito” vale solo dal 2022: prima, per otto anni, gli aggressori erano i governi di Kiev (l’ultimo, quello di Zelensky) e gli aggrediti i popoli del Donbass

1991 Per capire la cosidetta Invasione Ucraina avviata dalla Russia nel febbraio 2022 è determinante analizzare i fatti precedenti a partire dagli accordi cosiddetti 2+4 1990 e seguenti dal 1991 … QUINDI MAIDAN GLI ACCORDI MINSK 1 e MINSK 2  il 5 settembre 2014

PROLOGGO

L’Ucraina come stato indipendente è nata nel 1991, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica. Questa vasta area è stata infatti oggetto di aspre contese territoriali fin dall’antichità, ma prima del 1991 non era mai esistita come stato unico. Per secoli, la parte occidentale e centrale dell’Ucraina è stata sotto il controllo politico e militare di potenze straniere: il regno di Svezia e Polonia-Lituania, l’ impero austro-ungarico e l’impero ottomano . Invece le zone più orientali e la penisola di Crimea ( spesso controverso ) erano storicamente sotto il controllo russo . Questo spiega le due identità dell’Ucraina moderna: le province centrali e occidentali si sentono storicamente e culturalmente più vicine all’Europa occidentale, mentre le province orientali hanno più affinità con la Russia .

L’Ucraina, dove la lotta politica è perenne, la corruzione dilaga [5] e l’economia stagnante per mancanza di investimenti, è stata costretta, nonostante la sua notevole ricchezza mineraria, a dipendere pesantemente dalle importazioni dalla Russia, in primis di gas per garantire non solo il riscaldamento delle sue città ma anche il funzionamento delle sue obsolete fabbriche metalmeccaniche e delle sue miniere. Parallelamente, la banca centrale del Paese, fino alla fine del 2013, ha continuato ad attingere alle proprie riserve nel tentativo di mantenere una surreale parità sia con il dollaro che con l’euro; di conseguenza, esaurendosi tali riserve, lo Stato è stato costretto a ritardare il pagamento delle pensioni ea obbligare molti dipendenti statali a prendere ferie non retribuite. [6]

Il disperato bisogno di denaro dell’Ucraina è stato, quindi, uno dei fattori alla base della sua mancata firma dell’Accordo di associazione. Nel novembre 2013, la banca centrale ucraina ha stimato di aver bisogno di 15 miliardi di dollari per pagare i suoi debiti in scadenza entro marzo 2014. A questo punto una crisi politica era a pochi mesi di distanza. Per evitare che la situazione sfugga di mano, è stato chiesto all’Unione Europea di fornire gli aiuti finanziari necessari in cambio della firma, da parte dell’Ucraina, dell’Accordo di associazione. All’inizio di dicembre, l’Europa ha risposto, tramite l’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza Catherine Ashton, con un’offerta di 1 miliardo di dollari. Questa cifra era del tutto inadeguata ed è stata respinta con disprezzo dal governo a Kiev poco più di un sussidio . Nel frattempo, il governo russo era intervenuto con un’offerta di 15 miliardi di dollari e un forte sconto aggiuntivo sul prezzo del gas in vigore all’epoca. [7]

La rottura con l’UE a favore dell’accordo con la Russia è stata, quindi, l’evento che ha innescato la crisi travolgente che si è progressivamente estesa da Kiev alle altre regioni occidentali contrariequello che era percepito come servilismo filo-russo da parte del governo. D’altra parte, nelle regioni orientali del Donbass, e in Crimea, si sono svolte manifestazioni a favore dell’accordo con la Russia. Inoltre, in questa zona del Paese si registravano anche scioperi dei minatori che, oltre a chiedere migliori condizioni di lavoro e salari, protestavano anche contro la richiesta del governo ad interim di imporre una tassa del 10 per cento sui salari dei lavoratori per finanziare la ricostruzione degli edifici ( sia governative che non governative) a Kiev che erano state distrutte durante le proteste. [8]

Il Paese si è così trovato nel mezzo di una guerra civile che aveva colto tutti di sorpresa, in primis l’Unione Europea, che, all’inizio del 2014, non sapeva ancora che posizione prendere. Questa situazione ha fornito, ancora una volta, la conferma dell’impotenza dell’odierna Europa divisa, incapace di sviluppare una linea politica coerente e neppure di prevedere — tanto meno prevenire — esplosioni di tensioni ai propri confini.

Contro ogni previsione: l’accordo Due più quattro e la riunificazione della Germania

Il 12 settembre 1990 ha segnato il trentesimo anniversario di uno dei momenti più significativi della storia tedesca moderna. Nell’accordo Due più quattro, le Quattro Potenze rinunciarono a tutti i diritti che detenevano in Germania, consentendo alla Germania di riunirsi e diventare pienamente sovrana l’anno successivo. Tuttavia, la riunificazione della Germania non è avvenuta senza riserve europee.

Il Trattato sulla Transazione Finale

Il 12 settembre 1990 è stato firmato a Mosca il Trattato sulla Transazione Finale nei confronti della Germania – noto anche come Accordo Due più Quattro –. È stata una giornata epocale per la Germania. Le firme portarono nientemeno che la fine dell’occupazione delle quattro potenze vincitrici della seconda guerra mondiale in Germania ma contemporaneamente il superamento della divisione dell’Europa e, quindi, la fine della Guerra Fredda, la cui linea del fronte attraversava proprio la Germania. 

La formazione militare di Ronald Reagan negli Stati Uniti e la perestrojka e la glasnost di Gorbaciov nell’Unione Sovietica avevano creato le condizioni per ciò che sembrava inconcepibile per più di quattro decenni: i rappresentanti dei due stati tedeschi e delle quattro potenze vincitrici si sedettero a un tavolo e stabilirono un consenso.

Scetticismo sulla riunificazione tedesca

All’inizio del 1990 esistevano ancora notevoli riserve sulla riunificazione della Germania, specialmente in Francia e Gran Bretagna. Quest’ultimo è diventato evidente quando il muro di Berlino è caduto nel 1989. Il primo ministro britannico Margaret Thatcher ha dichiarato indignato in una riunione dei capi di governo della Comunità europea alla presenza di Helmut Kohl che i tedeschi erano stati “picchiati due volte” ma ora erano tornati , ciò nonostante. 

Nel febbraio 1990, all’inizio dei negoziati Due più quattro, avvertì nuovamente che la Germania avrebbe dominato l’Europa in futuro. Anche il presidente francese François Mitterand ha mostrato un timore particolare per ciò che stava accadendo nel paese vicino. Tuttavia, a differenza della Thatcher, non si è mai opposto alla riunificazione tedesca ab initio. 

Le forti relazioni di Kohl con i leader stranieri

Tuttavia, ciò che ha funzionato a favore della Germania è stata una relazione significativa tra il cancelliere tedesco Helmut Kohl (CDU), Gorbaciov e il presidente George HW Bush. In particolare Bush è stato ampiamente considerato come uno dei principali artefici della riunificazione della Germania. 

Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Stati Uniti hanno deciso il formato due più quattro a Ottawa all’inizio di febbraio 1990. L’obiettivo era regolamentare “gli aspetti esteri dell’unità tedesca, comprese le questioni della sicurezza gli stati confinanti con entrambi gli stati tedeschi”. Il primo ciclo di negoziati tra i sei stati è iniziato a Bonn a maggio, seguito da altri a Berlino Est ea Parigi in estate e infine a Mosca a settembre.

La questione decisiva fu il riconoscimento finale del confine Oder-Neisse tra Germania e Polonia, l’ampio ritiro delle forze alleate dalla Germania, la rinuncia ai poteri vittoriosi dei loro diritti di riserva e il ripristino della piena sovranità della Germania secondo il diritto internazionale. Inoltre, hanno giocato un ruolo la futura adesione di una Germania unita, la forza del suo esercito e le garanzie di sicurezza per gli stati vicini.

Il Trattato Finale

Il trattato, alla fine comprendeva dieci articoli in cui la Germania unita riconosce i suoi attuali confini e si impegna a non sollevare rivendicazioni territoriali e a rinunciare alle armi nucleari, biologiche e chimiche ea ridurre la Bundeswehr a un massimo di 370.000 soldati. Allo stesso tempo, la Germania, la RDT e l’Unione Sovietica hanno deciso di ritirare tutte le forze armate sovietiche entro la fine del 1994.

Infine, l’articolo 7 contiene quello che è probabilmente il passaggio più importante: la cessazione di tutti i diritti e responsabilità di occupazione degli Alleati in Germania che esistono dalla fine della guerra nel 1945 e lo scioglimento delle loro istituzioni. Quest’ultimo ha consentito alla Germania dell’Est, che apparteneva all’alleanza militare orientale “Patto di Varsavia”, di diventare un membro della NATO nella Germania unificata, proprio come la Repubblica federale di Germania.

Non ufficialmente un “Trattato di pace”

Sebbene l’accordo Due più quattro sia essenzialmente un trattato di pace, i governi di entrambi gli stati tedeschi hanno evitato questa designazione a tutti i costi, poiché i negoziati con tutti i 60 oppositori della Germania nazionalsocialista nella seconda guerra mondiale avrebbero portato a vaste richieste di riparazione.

Dopo soli sei mesi, i ministri degli esteri di entrambi gli stati tedeschi e dei quattro alleati hanno firmato l’accordo il 12 settembre 1990 a Mosca. Gli Alleati sospesero immediatamente i loro diritti; il 2 ottobre il trattato è stato presentato anche agli stati della CSCE, che ne hanno preso atto “con grande soddisfazione”. 

La via per l’unità tedesca è stata formalmente sigillata il 3 ottobre, che, ancora oggi, è celebrato come giorno festivo.

Tuttavia, il trattato è entrato in vigore solo sei mesi dopo, il 15 marzo 1991. L’Unione Sovietica è stato l’ultimo dei sei paesi firmatari a ratificare l’accordo, giusto in tempo per il colpo di stato contro Gorbaciov in estate e contro uno stato d’animo instabile in l’Unione Sovietica contro la riunificazione della Germania. 

Questa giornata e gli sforzi delle parti coinvolte per realizzare la riunificazione tedesca saranno ricordati per sempre non solo in Germania ma in tutto il mondo.

PERPLESSITA RUSSE: NON UN Pollice OLTRE

La famosa assicurazione “non un pollice verso est” del Segretario di Stato americano James Baker sull’espansione della NATO nel suo incontro con il leader sovietico Mikhail Gorbachev il 9 febbraio 1990, faceva parte di una cascata di assicurazioni sulla sicurezza sovietica fornite dai leader occidentali a Gorbaciov e ad altri funzionari sovietici durante il processo di unificazione tedesca nel 1990 e nel 1991, secondo i documenti declassificati statunitensi, sovietici, tedeschi, britannici e francesi pubblicati oggi dal National Security Archive presso la George Washington University ( http:/ /nsarchive.gwu.edu ).

I documenti mostrano che diversi leader nazionali stavano prendendo in considerazione e rifiutando l’adesione dell’Europa centrale e orientale alla NATO dall’inizio del 1990 e fino al 1991, che le discussioni sulla NATO nel contesto dei negoziati di unificazione tedesca nel 1990 non erano affatto limitate allo status di Est territorio tedesco e che le successive lamentele sovietiche e russe di essere stati fuorviati sull’espansione della NATO erano fondate su memcon e telcon scritti contemporanei ai più alti livelli. 

I documenti rafforzano la critica dell’ex direttore della CIA Robert Gates di “andare avanti con l’espansione della NATO verso est [negli anni ’90], quando Gorbaciov e altri furono indotti a credere che ciò non sarebbe accaduto”. (NSB1)La frase chiave, rafforzata dai documenti, è “portata a credere”.

Il presidente George HW Bush aveva assicurato a Gorbaciov durante il vertice di Malta del dicembre 1989 che gli Stati Uniti non avrebbero approfittato (“non ho saltato su e giù sul muro di Berlino”) delle rivoluzioni nell’Europa orientale per danneggiare gli interessi sovietici; ma né Bush né Gorbaciov a quel punto (o del resto, il cancelliere della Germania occidentale Helmut Kohl) si aspettavano così presto il crollo della Germania orientale o la velocità dell’unificazione tedesca. (NSB3)

Le prime assicurazioni concrete da parte dei leader occidentali sulla NATO sono iniziate il 31 gennaio 1990, quando il ministro degli Esteri della Germania occidentale Hans-Dietrich Genscher ha aperto la gara con un importante discorso pubblico a Tutzing, in Baviera, sull’unificazione tedesca. L’Ambasciata degli Stati Uniti a Bonn (vedi Documento 1) ha informato Washington che Genscher ha chiarito “che i cambiamenti nell’Europa orientale e il processo di unificazione tedesca non devono portare a una ‘lesione degli interessi di sicurezza sovietici’. Pertanto, la NATO dovrebbe escludere una ‘espansione del suo territorio verso est, cioè spostandolo più vicino ai confini sovietici’”. Il cablogramma di Bonn rilevava anche la proposta di Genscher di lasciare il territorio della Germania orientale fuori dalle strutture militari della NATO anche in una Germania unificata nella NATO. (NSA3)

Quest’ultima idea di statuto speciale per il territorio della RDT è stata codificata nel trattato finale di unificazione tedesca firmato il 12 settembre 1990 dai ministri degli Esteri Due più quattro (vedi Documento 25). La prima idea di “più vicino ai confini sovietici” è scritta non nei trattati ma in molteplici memorandum di conversazione tra i sovietici e gli interlocutori occidentali di più alto livello (Genscher, Kohl, Baker, Gates, Bush, Mitterrand, Thatcher, Major, Woerner e altri) offrendo assicurazioni per tutto il 1990 e fino al 1991 sulla protezione degli interessi di sicurezza sovietici e sull’inclusione dell’URSS nelle nuove strutture di sicurezza europee. I due problemi erano correlati ma non uguali. L’analisi successiva a volte confondeva i due e sosteneva che la discussione non coinvolgeva tutta l’Europa. I documenti pubblicati di seguito mostrano chiaramente che è stato così.

La “formula Tutzing” divenne immediatamente il centro di una raffica di importanti discussioni diplomatiche nei successivi 10 giorni nel 1990, che portarono al cruciale incontro del 10 febbraio 1990 a Mosca tra Kohl e Gorbaciov quando il leader della Germania occidentale ottenne in linea di principio l’assenso sovietico all’unificazione tedesca nella NATO, fintanto che la NATO non si espanse a est. I sovietici avrebbero bisogno di molto più tempo per lavorare con la loro opinione interna (e con l’aiuto finanziario della Germania occidentale) prima di firmare formalmente l’accordo nel settembre 1990.

Le conversazioni prima dell’assicurazione di Kohl hanno comportato una discussione esplicita sull’espansione della NATO, sui paesi dell’Europa centrale e orientale e su come convincere i sovietici ad accettare l’unificazione. Ad esempio, il 6 febbraio 1990, quando Genscher incontrò il ministro degli Esteri britannico Douglas Hurd, il record britannico mostrava che Genscher diceva: “I russi devono avere una certa certezza che se, ad esempio, il governo polacco un giorno avesse lasciato il Patto di Varsavia, Mai avrebbero potuto far parte della NATO nella storia seguente”. (Vedi documento NSa2)

Dopo aver incontrato Genscher mentre si avviava a discussioni con i sovietici, Baker ripeté esattamente la formulazione di Genscher nel suo incontro con il ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze il 9 febbraio 1990 (vedi documento ns4); e, cosa ancora più importante, faccia a faccia con Gorbaciov.

Non una, ma tre volte, Baker ha dichiarato la formula “non un Pollice verso est” con Gorbaciov nell’incontro del 9 febbraio 1990. Era d’accordo con la dichiarazione di Gorbaciov in risposta alle assicurazioni che “l’espansione della NATO è inaccettabile”. Baker assicurò Gorbaciov che “né il Presidente né io intendiamo trarre vantaggi unilaterali dai processi in corso” e che gli americani hanno capito che “non solo per l’Unione Sovietica, ma anche per altri paesi europei è importante avere garantisce che se gli Stati Uniti manterranno la loro presenza in Germania nel quadro della NATO, nemmeno un centimetro dell’attuale giurisdizione militare della NATO si estenderà in direzione orientale”. (Vedi documento NS2) 

Tutto giò assodato e conclamato, le trattative continuano ancor aper anni affinchè L’ex UNIONE Sovietica Divenisse un Paese Partner Occidentale a tutti gli effetti.

In sintesi tutti i documenti Uffuciali e Non mostrano che Gorbaciov ha accettato l’unificazione tedesca nella NATO come risultato di questa cascata di assicurazioni, e sulla base della sua stessa analisi che il futuro dell’Unione Sovietica dipendeva dalla sua integrazione in Europa, per la quale la Germania sarebbe l’attore decisivo .

 Lui e la maggior parte dei suoi alleati credevano che una qualche versione della casa comune europea fosse ancora possibile e si sarebbe sviluppata insieme alla trasformazione della NATO per portare a uno spazio europeo più inclusivo e integrato, che l’accordo post-Guerra Fredda avrebbe tenuto conto dell’evoluzione sovietica interessi di sicurezza. L’alleanza con la Germania non solo avrebbe superato la Guerra Fredda, ma avrebbe anche ribaltato l’eredità della Grande Guerra Patriottica.

TUTTAVIA anche in quei momenti SI da inizio alla Trappola

Infatti all’interno del governo degli Stati Uniti è proseguita una discussione diversa, un dibattito sui rapporti tra la NATO e l’Europa dell’Est. Le opinioni differivano, ma il suggerimento del Dipartimento della Difesa a partire dal 25 ottobre 1990 era di lasciare “la porta socchiusa” per l’adesione dell’Europa orientale alla NATO. (Vedi documento 27) L’opinione del Dipartimento di Stato era che l’espansione della NATO non fosse all’ordine del giorno, perché non era nell’interesse degli Stati Uniti organizzare “una coalizione antisovietica” che si estendesse ai confini sovietici, anche perché potrebbe invertire le tendenze positive nell’Unione Sovietica. (Vedi documento 26) L’amministrazione Bush ha adottato quest’ultimo punto di vista. Ed è quello che hanno sentito i sovietici.

Ancora nel marzo 1991, secondo il diario dell’ambasciatore britannico a Mosca, il primo ministro britannico John Major assicurò personalmente Gorbaciov: “Non stiamo parlando del rafforzamento della NATO”. Successivamente, quando il ministro della Difesa sovietico, il maresciallo Dmitri Yazov, ha chiesto a Major dell’interesse dei leader dell’Europa orientale nell’adesione alla NATO, il leader britannico ha risposto: “Non accadrà nulla del genere”. (Vedi documento 28)

DOPO

MALGRADO tutte le assicurazioni dal 1990 a oggi la NATO ingloba10 Paesi ex Patto di Varsavia in 14 anni.

Nel 1999 la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria sono diventate ufficialmente membri della NATO. Nel 2004, l’intero blocco del Patto di Varsavia – Lettonia, Estonia, Lituania, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia – è entrato ufficialmente a far parte della NATO, seguito da Croazia e Albania nel 2009.

L’ambasciatore Jack Matlok Decano Americano  , per 20 anni al centro di tutti i negoziati Usa-Urss, con estrema onestà. in un libro documento riporta alcuni momenti determinanti e l’atmosfera di quegli accordi e del prosieguo.

Ho testimoniato al Congresso contro l’espansione della NATO, dicendo che sarebbe stato un grande errore e cheassolutamente avrebbe dovuto fermarsi prima di raggiungere paesi come l’Ucraina e la Georgia, che questo sarebbe inaccettabile per qualsiasi governo russo e che inoltre l’espansione della NATO avrebbe minatoogni possibilità di sviluppo della democrazia in Russia. E George Kennan aveva anche detto che era stato il più grande errore geopolitico di quel decennio.

E penso che avesse ragione. Quando sono uscito da quell’incontro un paio di persone che stavano osservando hanno detto: Jack perché stai combattendo contro questo.

Hanno detto, Guarda Clinton vuole essere rieletto, Ha bisogno della Pennsylvania Michigan Illinois, Stanno insistendo sul fatto che l’Ucraina, La NATO si espanda per includere la Polonia e infine l’Ucraina. Quindi Clinton ha bisogno di quelli per essere rieletta Ma il fatto è che penso che la questione conclusiva fosse la politica interna. A quel tempo vorrei dire ulteriormente su questa questione dell’espansione della NATO, che penso che l’amministrazione Clinton fosse piuttosto in malafede. Clinton disse personalmente a Eltsin che il Partenariato per la Pace sarebbe stato un sostituto per l’espansione della NATO e Eltsin rispose <che è fantastico >

È un’idea brillante, maacllo stesso tempo il nostro ambasciatore fu incaricato di dire ai polacchi “Questo è il primo passo verso l’adesione alla NATO ” Quindi stavamo giocando, Devo dire con mio sgomento su tavoli diversi, una diplomazia estremamente ambigua in quel momento. Per di più ed essendo motivati in gran parte da questioni interne, non da ciò che avrebbe davvero significato un’Europa intera e libera che era l’obiettivo della nostra politica nella prima amministrazione Bush.

E quando abbiamo detto Europa intera e libera che include la Russia Non è solo tutto tranne la Russia. In realtà poi non c’era bisogno che la NATO si espandesse verso est perché, c’erano altri modi attraverso cui i paesi interessati avrebbero potuto essere rassicurati e protetti senza ridividere l’Europa a svantaggio della Russia.

In molti casi ciò di cui avevano bisogno in Europa a quel tempo era una grande riduzione delle spese militari perché, naturalmente, negli anni ’90 abbiamo avuto i problemi nei Balcani e queste sono questioni separate ma sono rilevanti per la politica in quel momento.

Ma con la disgregazione della Jugoslavia, che tra l’altro non era qualcosa che gli Stati Uniti hanno progettato, non volevamo che accadesse. So che molte persone pensano in particolare in Russia che faceva parte di un progetto grandioso.

Senza entrare nei dettagli, direi che era molto chiaro che se noi saremmo stati in grado di stabilire un’organizzazione di sicurezza paneuropea che avrebbe potuto essere fatto espandendo i poteri dell’organizzazione dell’unità europea così come uscirà dall’Atto finale di Helsinki, avrebbe significato un Partenariato per la Pace tra la NATO e i singoli paesi, tra cui Russia e Ucraina e altri che volevano far parte; ed era esattamente la cosa che Eltsin accettò con entusiasmo. Ed è stato il nostro passaggio da questo a quello Ora dall’altra parte dovrei dire che la Russia non ha mai presentato una proposta realistica su come funzionerebbe una situazione di sicurezza tutta europea. E gli europei dell’est immagino fossero così bruciati dal passato e dalle cose del genere che hanno iniziato a pensare che solo la protezione della NATO può risolvere i loro problemi, anche se in molti casi i loro problemi sono principalmente interni e qualcosa che un’alleanza straniera non li avrebbe aiutati. Ma queste percezioni penso abbiano cominciato a dominare in molti modi. Ma nel complesso direi che la motivazione americana tendeva ad essere quella di soddisfare i collegi elettorali nazionali 16 Hanna Notte E continuerò con una domanda che è legata davvero alla questione dell’espansione della NATO e a me sembra ugualmente centrale quando discutiamo delle relazioni USA-Russia Quindi nei tuoi libri l’ambasciatore Matlock discute i concetti della leadership dell’egemonia dell’impero a grande lunghezza e lei mette in guardia contro le ambizioni imperialiste nel mondo moderno Lei riconosce anche l’orgoglio e le tradizioni distinte delle varie nazionalità all’interno dell’Unione Sovietica che ha incontrato

È vero che Reagan scriveva anche delle lettere a mano a Gorbaciov?
«Sì. In realtà Reagan lo faceva con tutti i leader sovietici, a partire da Breznev. Spesso aggiungeva un commento scritto a mano a una lettera stampata, per esempio su come comprendevamo i loro molti sacrifici durante la guerra mondiale, e così via. Dopo il primo incontro con Gorbaciov a Ginevra nell’85, apportò alcune correzioni a una lettera che avevo redatto per lui, la ricopiò a mano, e anche Gorbaciov rispose con una lettera scritta a mano. Avevano sviluppato un rapporto personale».

Cosa c’era in quella lettera?
«La inviò una settimana dopo la fine dell’incontro, cercando di stabilire alcune priorità per il nostro negoziato. E fece delle proposte, in particolare, per cercare di ottenere un accordo per il ritiro dall’Afghanistan. Gorbaciov ci mise un po’ a rispondere, e non accolse tutti i suggerimenti, ma era un modo per fare piccoli progressi».

E com’erano i rapporti tra Nancy Reagan e Raissa Gorbaciova?
«Be’ ne avrei di aneddoti! Sia Reagan che Gorbaciov erano molto legati alle loro mogli, ma nel caso di Raissa, penso di poter dire che fosse davvero la principale consigliera del marito. Quando Gorbaciov propose un breve incontro a Reykjavík Reagan mi chiese cosa ne pensassi e io dissi che dovevamo assolutamente accettare. E siccome doveva essere un incontro di lavoro sarebbe stato meglio non far andare le first ladies per non pesare sull’organizzazione. Quindi mandammo un messaggio per dire che accettavamo e che Mrs Reagan non sarebbe andata, ma poi quando arriviamo lì Raissa c’era. Più tardi chiesi spiegazioni ai diplomatici sovietici, ci risposero che avevano avvertito Gorbaciov, ma lui non riusciva a funzionare senza la moglie. E poi quando Raissa venne per la prima volta a Washington, le sue prime parole furono: “Ci sei mancata a Reykjavík”, al che Nancy rispose: “Non ero stata invitata”. Ma la tensione iniziale scomparve presto. Entrambe erano grandi sostenitrici della pace e avevano una grande influenza sui mariti. Mrs Reagan non veniva coinvolta nel processo politico, ma era determinata a che Ronald finisse nei libri di storia come un leader di pace e si assicurava che togliesse di mezzo consiglieri troppo falchi».

Prima del famoso discorso di Berlino “Signor Gorbaciov butti giù quel muro” era informato che avrebbe usato quella frase?
« No, non avevo visto prima il discorso, ma capii perché volesse pronunciare quelle parole. Eravamo sul punto di firmare l’accordo sulle armi nucleari di medio raggio, un grosso accordo, ma l’Europa era ancora divisa, c’era il Muro, e lui voleva che fosse molto chiaro che non ce ne eravamo dimenticati, che c’era ancora molta strada da fare. Ma non c’è un rapporto di causa-effetto diretto tra quel discorso e la caduta del muro, Reagan non era nemmeno più presidente, c’era Bush padre. E ricordo che prima che Bush si recasse per la prima volta nell’Europa dell’Est, Gorbaciov mi disse: “Chieda al suo presidente di essere più cauto”. Gli chiesi se potesse essere più specifico. Mi rispose: “No, gli dica solo così”. Parlai con Bush, gli dissi che Gorbaciov stava facendo pressioni per le riforme in Germania est e quindi non aveva bisogno di una spinta pubblica. E così il presidente durante la visita non fece menzione del muro e anzi lodò la perestrojka, e mi fu riferito che Gorbaciov ne fu molto contento. Alla fine non nominando il muro Bush facilitò gli sforzi di Gorbaciov di liberare i tedeschi dell’Est così che potessero abbatterlo loro quel muro. E così fu».

Ci fu però una policy review nel passaggio tra Reagan e Bush. Bush pensava che Reagan stesse cedendo troppo a Gorbaciov?
«Di quella revisione non aveva bisogno, perché aveva partecipato in prima persona alla definizione della politica quando era vicepresidente. Era una questione tutta interna ai repubblicani, credo si sentisse vulnerabile alle accuse di essere troppo morbido e sapeva che l’ala destra del partito non lo sosteneva pienamente. Quindi ritardò i contatti diretti fino a dicembre, quando ci fu l’incontro di Malta. Gorbaciov promise che Mosca non avrebbe interferito se i Paesi dell’est avessero scelto la via democratica, e Bush che Washington non ne avrebbe tratto vantaggio».

Qualcuno dice che Bush, o meglio il suo segretario di Stato James Baker, e lei c’era quando accadde, promise che la Nato non si sarebbe espansa a Est.
«È un po’ più complicato di così, a Malta non ci fu menzione della Nato, non si pensava neanche che la riunificazione della Germania fosse immediata. Poi le cose precipitarono. A febbraio del ‘90 Baker venne a Mosca per cercare di convincere Gorbaciov che sarebbe stato nell’interesse dei sovietici avere una Germania unita nella Nato. Aggiungemmo la premessa: assumendo che non ci sia un’espansione della giurisdizione dell’Alleanza, nemmeno di un centimetro, non sarebbe meglio per l’Unione Sovietica e per tutti se Berlino restasse dentro? Gorbaciov disse che qualsiasi espansione a Est era inaccettabile, ma capiva gli altri punti. Disse che ci avrebbe pensato attentamente e aggiunse: “Voglio che sappiate che la nostra politica precedente era quella di escludervi dall’Europa, ma ora non è lo è più”. E aggiunse che accoglieva con favore la nostra partecipazione alla sicurezza europea, comprendendone gli effetti positivi di stabilizzazione. Quando finalmente furono fatti gli accordi, il territorio dell’ex Germania dell’Est fu trattato effettivamente in modo diverso. Lì non ci potevano essere stazioni di armi nucleari e truppe diverse da quelle tedesche. Non si parlava specificamente dell’Europa orientale, ma se mi avessero chiesto, in qualità di ambasciatore, se l’Europa dell’Est fosse inclusa, avrei risposto: “Beh, certo”. Una volta che i Paesi dell’Est avevano lasciato il patto di Varsavia ed erano diventati democratici che motivo c’era di espandere la Nato? Però quello di cui si parla era un accordo tra gentiluomini, non un impegno legale. Penso anche che Bush non avrebbe seguito la strada dell’espansione a Est, che fu scelta da Clinton».

  1. Zelensky Conferenza di Malta Ottobre 2019

2) Proroschenko Presidente Ucraina cosa Pensa Del Donbas

sottotitoli Italiano

Biden E Ucraina A chiare lettere

Parigi 2019 Putin parla della necessità di un’attuazione coerente degli accordi di Minsk e introdurre Una clausola di neutralità. Guardate la Faccia di Zelensky

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