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AFGHANISTAN NARCO DECLASSIFICATI

Documenti declassificati dell’intelligence statunitense descrivono la storia dei talebani con il commercio illecito di stupefacenti

24 GENNAIO 2023tag: 

Afghanistan , 

DNSA , 

FOIA , 

Talebani

di Burkelly Hermann

Il 13 gennaio di quest’anno, Hasibullah Ahmadi, capo del dipartimento antidroga del ministero dell’Interno dell’Afghanistan, ha affermato che il traffico di droga dal paese è diminuito, ma ha ammesso che questo commercio illecito continua in alcune province. Questi commenti sollevano la questione dei legami dei talebani con il mercato dei narcotici e dei precedenti tentativi di frenare la produzione di droga. I documenti declassificati presenti nel post di oggi, tutti rilasciati ai sensi del Freedom of Information Act (FOIA), sono una selezione della nuova collezione Digital National Security Archive, Afghanistan War and the United States, 1998-2017 , pubblicata nel dicembre dello scorso anno. I tre documenti esaminati in questo post descrivono in dettaglio i legami dei talebani con le reti di trafficanti internazionali alla fine degli anni ’90 e i tentativi di regolamentare il mercato nei primi anni 2000 nel tentativo di ingraziarsi la comunità internazionale. Nel loro insieme, i documenti descrivono i legami dei talebani con i piani del traffico di droga e come i divieti sui papaveri, anche quando efficaci, hanno giovato finanziariamente ai talebani e ai consorzi di traffico associati. 

Con l’emergere del primo movimento talebano, dal 1994 al 1996, la produzione di stupefacenti è salita alle stelle in Afghanistan, con documenti declassificati che affermano che il gruppo si è allineato con i trafficanti di droga internazionali. Ci sono state indicazioni da parte di funzionari statunitensi che la produzione di stupefacenti nel paese è aumentata in modo significativo in seguito al controllo dei talebani su vaste aree del paese. In una stima segreta dell’intelligence nazionale (NIE) del maggio 2001 ora declassificata, l’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale ha sottolineato che nel 2000 il paese forniva circa il 72% dell'”oppio illecito” mondiale. Questo documento pesantemente redatto includeva una mappa che indicava le aree di coltivazione del papavero da oppio in Afghanistan (pagina 26) e un grafico che mostrava l’aumento della coltivazione di oppio tra il 1991 e il 2000. Il NIE ha notato che i produttori in Afghanistan erano passati a fornire e produrre più eroina per diversi anni prima 2001. 

Questa analisi è stata rafforzata da un documento di ricerca della CIA Top Secret del dicembre 1998, ora declassificato, preparato dal Direttore del Central Intelligence (DCI) Crime and Intelligence Center, e recentemente rilasciato ai sensi del FOIA al National Security Archive. Questo rapporto Top Secret pesantemente rimossodescrive in dettaglio l’esplosione del mercato dei narcotici sotto il dominio talebano, rilevando i legami del gruppo con Quetta Alliance, un giro internazionale di traffico di droga, che condivideva legami con Osama bin Laden. Inoltre, questo rapporto afferma che il crescente ruolo dei talebani nel paese ha fatto esplodere il business dei narcotici. Il documento valuta anche il coinvolgimento del gruppo nel traffico illecito di stupefacenti, affermando che esso comprendeva i massimi leader talebani e che questo commercio si è intensificato “negli ultimi anni”, portando a immensi profitti per l’organizzazione fondamentalista. In particolare, il DCI Crime and Intelligence Center afferma che i fornitori di stupefacenti afgani si erano spostati verso i mercati internazionali, oltre a distribuire ai trafficanti di droga in Turchia. Il documento sottolinea che i combattenti talebani hanno fornito “supporto logistico” e “protezione” per il traffico di droga e laboratori all’interno del paese. Più significativamente, il documento sostiene che i talebani hanno forgiato legami con l’Alleanza di Quetta, un importante gruppo di trafficanti regionali e sponsor terroristico di Osama bin Laden.

Questo articolo non era il solo a descrivere l’Alleanza di Quetta. Un rapporto pubblicamente disponibile dell’agosto 1994, compilato dalla Divisione Intelligence della Drug Enforcement Administration (DEA), descrive l’Alleanza di Quetta come un’alleanza tra tre potenti gruppi di trafficanti che operano a Quetta, all’interno della provincia pakistana del Baluchistan. Il rapporto della DEA affermava che questa libera alleanza era basata su legami familiari e descriveva l’operazione come “simile a un grande consorzio di produzione o di servizi”. Ciò si collegava all’affermazione contenuta nel suddetto documento del DCI Crime and Intelligence Center, che sosteneva che una volta che l’Alleanza di Quetta fosse diventata il gruppo di narcotraffico dominante nel sud dell’Afghanistan, avesse fornito sostegno finanziario e reclutamento ai fiorenti talebani.

Alla fine del 1999, i talebani avevano vietato la coltivazione del papavero. Questo sarebbe seguito da un divieto di coltivazione e traffico di oppio nel luglio 2000, quest’ultimo in un editto del leader talebano Mullah Omar. Tuttavia, questi divieti non hanno interferito con il traffico e la vendita di oppio o papavero. Un cablogramma segreto declassificato del luglio 2001 della Defense Intelligence Agency (DIA) affermava che, sebbene il divieto fosse principalmente efficace, aumentava comunque sostanzialmente le entrate dei talebani dal traffico illecito di droga. Il divieto ha seguito le risoluzioni 1267 e 1333 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, rispettivamente nel 1999 e nel 2000, che condannava “il significativo aumento della produzione illecita di oppio” e chiedeva che i talebani si adoperassero per “eliminare virtualmente la coltivazione illecita del papavero da oppio”. Successivamente, il cablogramma della DIA rileva che i talebani probabilmente hanno soppesato il riconoscimento da parte della comunità internazionale rispetto ai propri interessi quando hanno considerato un’estensione del divieto. 

Questo cablogramma DIA ora declassificato affermava inoltre che mentre il divieto dei talebani avrebbe probabilmente ridotto la produzione mondiale di oppio di almeno il 50%, il divieto ha portato al quadruplicamento del prezzo afghano di oppio, morfina base ed eroina, che in precedenza erano record bassi. Il cablogramma afferma esplicitamente che un anno dopo il divieto i talebani beneficiavano ancora sostanzialmente dei proventi della droga, “… principalmente dalle tasse sul continuo traffico di stupefacenti e dalle scorte di stupefacenti di proprietà dei talebani, il cui valore è aumentato notevolmente”. Il cablogramma della DIA rileva inoltre che il divieto probabilmente non avrebbe avuto un impatto sugli Stati Uniti nei prossimi mesi, poiché le sue principali fonti di eroina provenivano dal sud-est asiatico e dall’America Latina. Mentre i talebani non hanno mai dovuto soppesare i propri interessi nell’estendere il divieto dovuto agli Stati Uniti 

Per ulteriori documenti sui talebani, vedere i numerosi manuali dell’Archivio, incluso il post del 23 settembre 2021, ” Documenti appena pubblicati mettono in dubbio le affermazioni che i talebani rinunceranno ad al Qaeda “. 

Gli ettari coltivati a papavero da oppio e il programma di eradicazioni in Afghanistan dal 1998-2014 (World Drug Report Unodc 2015)

L’Ufficio dell’Onu per la droga e il crimine (Unodc) ha stimato per il 2016 una produzione di 4.800 tonnellate di oppio, ammettendo sia «sottostimata sulla base dell’altezza e della densità delle piante osservata dai satelliti», malgrado ciò comunque quasi il doppio (+43%) delle 3.300 tonnellate dell’anno precedente. È aumentato inoltre il rendimento medio delle colture: dai 26,3 chilogrammi di oppio per ettaro del 2013, ai 28,7 chilogrammi del 2014. Di conseguenza, sempre per il 2016, l’Unodc stima una crescita del 30%, grazie alle «favorevoli condizioni climatiche» [14]. Le già inefficaci eradicazioni sono del resto calate nel 2016 del 91%, con appena 355 ettari distrutti. Ufficialmente per le difficili condizioni di sicurezza: 8 morti e 7 feriti nella campagna di eradicazione 2016, con 5 vittime e 18 persone colpite nell’annata precedente [15]. La verità sembra però essere un’altra, ben più scomoda. La chiariva anche un comunicato radio del comando della missione Nato, rivolto alla popolazione di quella provincia: «Stimato popolo dell’Helmand, i soldati dell’Isaf non distruggono i campi di papavero perché sanno che molti in Afghanistan non hanno alternative alla coltivazione del papavero. L’Isaf non vuole sottrarre alla popolazione i mezzi necessari per sostentarsi» [16]. Nel 2010, l’assistente strategico del generale americano Stanley McChrystal dirà la stessa identica cosa ai contadini del distretto di Majrah, formalmente parte di quello di Nad Ali nella provincia sud-occidentale di Helmand, appena riconquistato dai Marines americani dopo una grande offensiva militare: «Non distruggeremo le piantagioni di papavero, perché non possiamo colpire la fonte di sussistenza della popolazione di cui vogliamo conquistare la fiducia» [17]. Lo stesso presidente Karzai nel 2004 rigettò la proposta internazionale di fermare la produzione di oppio attraverso lo spargimento aereo di erbicidi chimici, spiegando che questa coltivazione costituiva l’unica fonte di sostentamento per larga parte degli afghani.

Per Barnett Rubin, consulente del governo Usa per l’Afghanistan, «quando il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld incontra in Afghanistan personaggi noti come narcotrafficanti, il messaggio che lancia è chiaro: aiutateci a combattere i talebani e nessuno interferirà con i vostri business» [8]. La connivenza degli Stati Uniti e della Nato con i signori della droga afghani prosegue anche dopo l’arrivo di Barak Obama alla Casa Bianca, ma con una rettifica. La nuova amministrazione decide di abbandonare l’imbarazzante linea, seguita fino a quel momento, di assoluto disinteresse al problema oppio, in favore di un intervento “selettivo” volto a colpire solamente i signori della droga legati ai talebani, ma – badate bene – solo quelli, perché con i narcos “amici” si continua invece a chiudere un occhio. Nell’agosto del 2009 un quotidiano statunitense annuncia che il Pentagono ha stilato una lista nera comprendente una cinquantina di narcotrafficanti afghani da catturare o da uccidere: «Non tutti i trafficanti, ma solo quelli che sostengono l’insurrezione e che con essa hanno legami certi» [9]. In Afghanistan la Cia e la Dea sono nuovamente in conflitto di interessi, peraltro con l’antidroga statunitense tra il 2001 e il 2003 con soli 2 agenti sul posto, saliti a 13 dopo il 2004.

GUERRE DIMENTICATE

Siria, Congo, Yemen e Corno d’Africa. Sono tanti i conflitti dimenticati offuscati dalla guerra in Ucraina. Eppure nel mondo si continua a combattere. Oggi si contano oltre 20 conflitti attivi, buchi neri che generano instabilità e che possono ingrandirsi con conseguenze devastanti

Conflitti ad alta o bassa intensità, lotte al terrorismo, colpi di stato e guerre civili. I riflettori sono puntanti sulla guerra che si combatte in Ucraina, distratti, per appena qualche settimana, dall’annosa questione di Taiwan: dove caccia e navi da battaglia continuano ad essere mobilitati in attesa di una grande invasione cinese che forse non avverrà mai. Eppure in Etiopia, Yemen, Sahel, Nigeria, Afghanistan, Libano, Sudan, Haiti, Colombia e Myanmar si combatte. Tutti i giorni.

Sono le guerre dimenticate. Quelle che da Noi non fanno o non fanno più notizia ma sono egualmente importanti da ricordare nella visione d’insieme di uno scacchiere geopolitico sempre più intricato e complesso. Perché ovunque si combatta un guerra, si trovano interessi e sfere d’influenza, obiettivi strategici e finanziatori occulti, vendite o traffici di armi e materie prime o terre rare da privare o nazionalizzare; e in fine future black operation e future missioni di peacekeeping dove contingenti internazionali rischiano di rimanere “impantanati” fino al punto di trascinare un intero Paese, o peggio un’intera alleanza, in una guerra che nessuno potrebbe più dimenticare.

Secondo i dati più aggiornati, attualmente sono 23 i conflitti ad alta intensità “attivi” nel mondo. A questi vanno sommate centinaia di tensioni che posso esplodere in una guerra civile o insurrezione da un momento all’altro. Armed Conflict Location & Event Data Project, organizzazione no-profit americana che vanta tra i suoi sostenitori il dipartimento di Stato degli Stati Uniti e diversi governi europei, le principali “dispute” territoriali che sono sfociate o rischiano di sfociare in conflitti convenzionali ad alta intensità riguardano: l’Ucraina e le repubbliche auto-proclamate di Donbass e Lugansk dopo l’invasione voluta da Mosca; il Nagorno Karabakh dove Armenia e Azerbaijan stanno raggiungendo una pericolosa escalation; la Turchia nella “fascia cuscinetto” dove è presente l’etnia Curda e l’infinito scontro tra israeliani e palestinesi lungo la Striscia di Gaza e nei territori contesi della Cisgiordania (anche noti come West-bank,ndr). Lo scontro che si sta consumando in Etiopia tra il governo etiope e i combattenti affiliati al Fronte popolare di liberazione del Tigray per ottenere il controllo dell’omonima regione.

Il colpo di coda dei talebani in Afghanistan, la prosecuzione della guerra civile in Siria per sovvertire il governo presieduto a Assad figlio, l’interminabile conflitto libico tra i governi posti di Tobruk e Tripoli sono considerate guerre civili ancora attive. Anch’essi passate in secondo o terzo piano nonostante il delicato scenario che ha visto coinvolte spedizioni militari statunitensi, britanniche, francesi, e russe. Senza contare l’impiego di contractors, consulenti militari di vario genere e semplici addestratori (anche se apparteniti alle forze speciali, ndr). Ma come dimenticare la guerra civile in Yemen? Scoppiata all’inizio nel 2015 tra la coalizione governativa appoggiata dall’Arabia Saudita e i ribelli Houthi, filo-iraniani.

Se in Iraq, dopo due guerre del Golfo e un’occupazione militare più che duratura, si registra ancora un’instabilità politica animata da sporadici attentati mossi dagli estremisti islamici, è nella fascia del Sahel che una guerra dimenticata con la costellazione di movimenti paramilitari fondamentalisti rischia di gonfiarsi fino a trascinare interi eserciti occidentali in una guerra che ricorderebbe il dramma dell’Afghanistan. Particolarmente critico il teatro del Mali, ex-colonia francese.

Preoccupanti e abbandonate al tetro dimenticatoi, sono gli scontri etnici che si consumano in Burkina Faso e nella Repubblica Democratica del Congo; le guerre o guerriglia condotte contri i militanti islamici di al-Shabaab in Somalia e Kenya; la guerriglia condotta contro Boko Haram in Nigeria; la guerra civile nel Sudan e nel Sud del Sud, dove i gruppi ribelli sono particolarmente attivi nel Darfur. E poi ancora scrontri in Angola, Mozambico, Congo. Sopressioni dei movimenti ribelli e militanti islamisti ancora in Egitto, nel Myanmar, in Daghestan e Cecenia come nelle Filippine. La guerra tra bande armate ad Haiti e quelle mosse ai cartelli della droga in Sud America. Guerre veramente dimenticate. Dove vecchie potenze e nuovi fermenti si incrociano nella salvaguardia di nuove e vecchie sfere d’influenza, religioni arcaiche e riti tribali, giacimenti di diamanti e terre rare che troveranno nuove rotte commerciali. E ancora territori da contendersi, dove la guerra non può neanche essere immaginata considerato il calibro dei belligeranti che vi prederebbero parte: Alaska o Mar Cinese Meridionale. Altri teatri che per guardare all’Ucraina, abbiamo momentaneamente accantonato.

Sono forse quelli i punti caldi più pericolosi e temibili di tutti. Punti geografici e remoti come la regione del Kashmir. Che vede contrapposte a causa delle delle tensioni mai sopite India e Pakistan. Entrambe potenze nucleari pronte e premere il dito sul bottone. È eccessivamente caustica eppure adeguata infatti, la conclusione potremmo rivolgere a coloro che fin troppo spesso, nel considerare esclusivamente minacce vicine e sulla bocca di tutti come ad esempio il climate-change, ribadendo come ogni decisione debba considerare “l’intero insieme delle cose” e non meno i conflitti in corso nel nostro martoriato pianeta. Poiché il cambiamento di delicati equilibri nella ricerca di prolungare la vita sul nostro bel pianeta, potrebbe al contrario costringere alla morte violenta migliaia di persone. O addirittura accorciarla drasticamente – se non si tiene conto degli interessi specifici di super potenze che con un first e second strike nucleare potrebbe riportarci alla preistoria in una manciata di ore.

AFGHANISTAN

L’altro ieri in Afghanistan: gonne, penne e diritti

L’Afghanistan oggi è uno dei paesi più pericolosi al mondo. Incertezza politica e crescente pressione talebana hanno contribuito nel corso del 2015 ad un peggioramento delle condizioni dei diritti umani in tutto il paese, inclusi reati impuniti da parte delle forze di sicurezza, minacce alle libertà di espressione e stampa e attacchi indiscriminati sui civili, come spiega il report del 2015 di Human Rights Watch. Inoltre la violenza nei confronti delle donne è “pandemica”: l’82 % non ha diritto a un’educazione e l’87.2% è vittima di qualche forma di abuso, che sia esso fisico, psicologico, sessuale, economico o sociale (da Independent Human Rights Commission of Afghanistan – AIHRC).

Ma l’Afghanistan, terra di Persia e storico crocevia dell’Asia centrale, non è stata sempre una regione brutale. A partire dalla storia recente. Fotografie degli anni ’50 e ’60 infatti dipingono il paese di un colore diverso: il colore del diritto allo studio, dell’integrazione uomo-donna, di una società libera da restrizioni mentali e fisiche di sorta. Un paese moderno e pieno di vita, con sfumature che poco si accordano con quelle di una popolazione oppressa e messa a tacere.

Le fotografie di Mohammad Qayoumi lo dimostrano. Nato e cresciuto a Kabul durante gli anni ’60 e oggi professore alla San Josè State University in California, nel saggio fotografico “Once Upon A Time In Afghanistan” Quayoumi conduce il lettore attraverso un viaggio nell’ Afghanistan di quegli anni. Lo ricorda così: “Mezzo secolo fa, le donne afghane facevano tranquillamente carriera nel campo della medicina; uomini e donne si mescolavano tranquillamente al cinema e nei campus universitari a Kabul; le fabbriche in periferia producevano prodotti tessili e tanti altri beni. C’era la legge e c’era l’ordine e c’era un governo capace di intraprendere grandi progetti di infrastrutture nazionali, come la costruzione di centrali idroelettriche e strade, anche se con un aiuto esterno. La gente aveva speranza, credeva che l’educazione avrebbe potuto aprire opportunità per tutti ed era convinta che si prospettasse un brillante futuro. Tutto ciò è stato distrutto da tre decenni di guerra, ma era vero.”

QUELLO CHE NON SAI DELL’AFGHANISTAN TE LO RACCONTO IO

KABUL ANNI 60 MAI VISTA COSI’

POI ARRIVIAMO NOI

TO BE CONTINUED