BRASIL Lula

La verdade,


Quando è avvenuto l’impeachment della Presidente Dilma Rousseff, i meno pessimisti hanno avvertito che la democrazia brasiliana era sull’orlo del baratro.


il Paese ha fatto un immenso salto nel vuoto e la democrazia è stata polverizzata, sprofondata nell’abisso infinito del degrado politico e della farsa legale.

Tutto è crollato: l’esercizio della sovranità popolare; l’autonomia dei poteri pubblici; le libertà individuali di base; la libertà di coscienza.
autorità pubbliche; le libertà individuali di base; il diritto di resistere ai poteri o al
diritto di resistere ai poteri oppressivi e il diritto di essere liberi dai poteri oppressivi.


Il Brasile dei signori feudali, dei proprietari di schiavi, dei tiranni, dei dispotici e degli impuniti, del potere corporativo dispotico e impunito; il Brasile della Casa Grande, dei poveri ammassati in mucchi immensi, senza alcun altro diritto se non quello di rassegnarsi a un futuro di sofferenza e oppressione.; il Brasile della dittatura silenziosa, quello della dittatura di oltre due decenni che non è nemmeno avvenuta, quello degli scomparsi che non vengono nemmeno notati.della verità che non viene nemmeno raccontata, della memoria che non viene mai ricordata,



Il costo è stato la rimozione e l’imprigionamento di un presidente che non ha commesso alcun crimine edi un presidente
che aveva avuto l’ardire di dimostrare che, se un giorno un metalmeccanico fosse salito al potere nella Repubblica,migliaia di altri lavoratori, di altri ragazzi e ragazze del Nordest e infinitamente poveri, migliaia e migliaia di brasiliani come tutti gli altri, potrebbero anch’essi andare al potere. A che costerebbe loro la libertà e, secondo loro, il silenzio e l’oblio.



“Non si rende un paese paese ricco. il più diseguale del mondo in un breve periodo di tempo come Ha fatto Bolsonarto”, sostiene il grande Luis Fernando Veríssimo.

la storia che Lula ci svela non è la storia di questi ultimi due anni di vergogna e ignominia che che hanno devastato una democrazia che, prima di nascere ma ci racconta come hanno tentato di annientarla. Così, Luís Felipe Miguel ci mette in guardia su un fatto fondamentale che spesso trascuriamo quando cerchiamo di interpretare una situazione che che ci travolge e ci disorienta: Lula (e Dilma,
aggiungiamo noi) non sono stati vittime dei loro fallimenti,
ma vittime del loro stesso successo. Ed è contro questi successi che
la destra ha dispèiegato le sue armi più potenti: la menzogna,



Luiz Inácio Lula da Silva è uno dei più grandi politici della storia brasiliana, paragonabile forse solo a Getúlio Vargas per il numero di segni che entrambi hanno lasciato sul Brasile. Questa intervista è stata realizzata alla vigilia di un momento cruciale della sua storia, nel passaggio da febbraio a marzo 2018, mentre il Paese attendeva la decisione della magistratura sul suo arresto in seguito all’accusa motivata dall’Operazione Lava Jato (Autolavaggio, dal nome del luogo in cui è iniziata l’indagine).


Non pensavo di tornare a correre nelle politiche del 2014. L’idea di tornare alla Presidenza della Repubblica. Ero come il giocatore che lascia la squadra, che parte come il migliore, va all’estero e quando torna pensa: “E se mi paragonano a quello che sono?
Se mi paragonano a quello che ero prima? È meglio che vada da qualche altra parte, non tornerò nella mia squadra”.


Quello che avevo intenzione di fare era questo: prendere la mia esperienza di governo e viaggiare per il mondo cercando di dimostrare alle società più povere che è possibile andare avanti. Y
è quello che ho cercato di fare. Pensavo di vivere tranquillamente. Y
Ho pianificato di vivere con i discorsi, che credo sia il modo più dignitoso di guadagnarsi da vivere.

RESOCONTO RISTRETTO

RICOSTRUIAMO LULA INDEGNA CARCERAZIONE VOLUTA DALLA DESTRA BRASILIANA

La prima condanna arrivò nel luglio 2017. Luiz Inácio Lula da Silva, già presidente del Brasile dal 2003 al 2011 che in quel momento pensava alla ricandidatura per l’anno successivo, fu condannato in primo grado nove anni e mezzo di prigione per corruzione e all’interdizione dai pubblici uffici di 19 anni.

Si trattava del primo dei cinque processi che la procura di Curitiba, capitale dello Stato di Paranà, aveva aperto nei confronti dell’ex presidente. «Lava-Jato», autolavaggio, così era stata rinominata l’inchiesta. Lula era accusato di aver preso tangenti da Petrobras, la potente compagnia petrolifera statale, per favorire l’azienda nell’assegnazione di ricchi contratti. Con lui furono coinvolti altri politici di spicco del Paese, a partire dall’allora presidente Dilma Roussef, che gli era succeduta nel 2011 e che fu costretta alle dimissioni per gli echi dello scandalo. Lula fin da subito respinse le accuse e parlò di «processo politico», ma i magistrati confermarono pochi mesi dopo la condanna anche in appello. Per l’uomo che aveva guidato il Paese tra il 2003 e il 2011 si aprirono le porte del carcere.

Dopo 580 giorni di carcere, il 9 novembre 2019 Lula è stato liberato grazie a una sentenza delle Corte suprema, che aveva stabilito un principio: l’estate di quello stesso anno, il sito The Intercept, fondato dal premio Pulitzer Glenn Greenwald, aveva aperto le prime falle nelle ricostruzioni giudiziarie.

Il sito aveva pubblicato una lunga inchiesta che mostrava come i processi contro Lula fossero stati pilotati per motivi politici, in modo di impedirgli di ricandidarsi nel 2018 alle elezioni poi vinte da Jair Bolsonaro (quando fu condannato, Lula era in testa nei sondaggi). Del resto il giudice federale del Paranà, Sergio Moro, era poi diventato il ministro della Giustizia proprio di Bolsonaro. E infatti, nel marzo del 2021, la Corte suprema brasiliana annullò le sentenze per «incompetenza territoriale e materiale» della corte di Curitiba. Poi fu riconosciuta anche la «parzialità» di Moro e si scoprì che procuratori e giudici dei processi avevano fabbricato prove false e le avevano rilanciate sulla stampa per darsi credito presso l’opinione pubblica.

Infine, lo scorso aprile, il comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che le due condanne, oltre a diversi vizi di forma, arrivarono alla fine di processi che avevano violato i più elementari diritti a un processo imparziale e alla privacy, oltre che i diritti politici. La commissione Onu ha poi aggiunto che l’annullamento deciso dalla suprema Corte, arrivato a quattro anni dalla prima sentenza, non è stato comunque sufficiente a riparare i danni subiti da Lula, che nel frattem

Condannato il giudice che fece condannare Lula

La Corte Suprema ha definito parziale il modo di agire dell’ex procuratore Sergio Moro nei confronti dell’ex presidente. Da due anni e mezzo si moltiplicano i dubbi sulla maxi inchiesta “Lava Jato”

GIUDICE MORO CHE FECE IMPRIGIONARE LULA, POI MINISTRO DI BOLSONARO

Era il 4 dicembre 2018. Qualche settimana prima, le elezioni avevano certificato il trionfo di Jair Bolsonaro, passato da candidato impresentabile a presidente del Brasile. Nella squadra di governo figurava l’ex procuratore di Curitiba Sergio Moro, icona anticorruzione e “grande accusatore” di Luiz Inácio Lula da Silva, favorito nella corsa ed escluso proprio per le condanne inflittegli da quest’ultimo nell’ambito dell’indagine Lava Jato. Immediatamente, la difesa del leader del centrosinistra aveva incolpato Moro di fronte alla Corte Suprema di aver agito per «fini politici»: la prova sarebbe stata proprio l’incarico di ministro della Giustizia ricevuto dal rivale di Lula. Quel 4 dicembre, con due alti togati a favore e due contro, si attendeva l’ultimo pronunciamento di Kassio Nunes Marques, che, con tutta probabilità, avrebbe fatto rigettare l’istanza. Il voto è però arrivato quasi 28 mesi dopo.Nel mezzo, la seduta è stata sospesa per acquisire nuovi elementi. È ripresa martedì sera (la notte in Italia) e come previsto, Kassio Nunes Marques s’è schierato con Moro. A sorpresa, però, la magistrata Cármen Lúcia ha cambiato la sua scelta – pratica concessa dalla legge –, facendo pendere la bilancia a sfavore dell’ex procuratore di Curitiba. Con una maggioranza di 3 a 2, l’Alto Tribunale ha stabilito che quest’ultimo ha agito in modo «parziale» nei confronti di Lula. La sentenza, pur relativa a uno dei casi per cui è stato condannato l’ex presidente, rischia di seppellire definitivamente l’inchiesta Lava Jato, con i suoi oltre 50 processi e 150 «colpevoli», molti illustri, tra politici ed manager. In realtà, la Corte s’è limitata a certificare i dubbi via via più consistenti emersi negli ultimi due anni e mezzo, dentro e fuori le aule giudiziarie. Più ancora della nomina a ministro, a infliggere un duro colpo alla credibilità dell’indagine è stata, nel giugno 2019, la diffusione, sul sito di inchiesta The Intercept, di varie intercettazioni in cui Moro, magistrato giudicante, sembrava “imbeccare” i pm dell’accusa durante i processi di Lava Jato. A inizio febbraio, la polizia ha confermato l’autenticità dei messaggi. Il colpo di grazia, però, è arrivato l’8 marzo, quando l’alto giudice Edson Fachin ha annullato la duplice condanna nei confronti di Lula perché il tribunale di Curitiba non era «competente» ad emetterli e gli ha restituito i diritti politici. Almeno per ora. La decisione deve essere confermata dal plenum della Corte. Nel frattempo, il massimo Tribunale ha messo Moro sul banco degli imputati. E l’ha condannato. Questo non spalanca automaticamente la strada a Lula per le presidenziali 2022. Altri due verdetti – ancora per Lava Jato– sono congelati in attesa della plenaria dei magistrati supremi. La marcia indietro, però, si fa sempre più difficile.

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